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PRIMA LETTERA A TIMÒTEO
(3)

 

1Tm 3,1-7: il vescovo, uomo delle relazioni autentiche

Il terzo capitolo della Prima Lettera a Timòteo rivolge le sue esortazioni ed i suoi ammonimenti a coloro che svolgono un servizio per la comunità, designati con il nome di “vescovi” e “diaconi”. Appare chiaro che all’interno della comunità si è già delineata una struttura di servizi e di responsabilità comunitari, anche se dobbiamo stare bene attenti a non proiettare su queste figure la comprensione che noi abbiamo oggi della realtà del vescovo o del diacono. Nella storia della Chiesa tra i titoli di elogio che gli agiografi cantano di molti santi c’è il fatto di avere rifiutato l’elezione all’episcopato; forse Paolo sarebbe stato d’accordo con questo umile rifiuto, vedendo la veste esterna che il sevizio episcopale ha talvolta assunto nella storia della Chiesa come ruolo di privilegio e di potere, ma quando scriveva a Timòteo per la giovane comunità cristiana ancora fresca di spirito evangelico, poteva ben dire che “se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro” (1Tm 3,1). C’è dunque un desiderio di bene nell’anelare al servizio di vescovo per una comunità! Letteralmente Paolo dice che desidera “un’opera bella”, e ciò che è bello si definisce tale perché risponde al progetto di Dio e ne rivela la gloria. Dunque nel ministero del vescovo risplende la gloria di Dio che ordinò il mondo con sapienza, e guardando le sue opere, le vide belle e buone. La parola epìskopos, “vescovo”, con cui il Nuovo Testamento designa questo specifico ministero ecclesiale, ha una lunga storia che ne spiega il significato.
Essa è legata al verbo episképtomai che indica un guardare intenso e prolungato, “guardare costantemente e con vigile attenzione”, un guardare che significa prendersi cura, guardare per vedere ogni necessità e subito porvi rimedio. Già il filosofo greco Platone aveva detto che uno stato gode di buona salute solo se c’è chi “vigila con attenzione” su di esso. Altri pensatori ritenevano che è compito morale del filosofo esercitare “lo sguardo vigilante” sulla società, riprendendo i vizi ed inculcando la virtù. Nel mondo greco epìskopos è un termine profano che designa funzionari civili con compiti di sorveglianza e vigilanza nell’amministrazione, nell’economia, nei lavori pubblici, ma compare marginalmente anche in ambito religioso, dove gli dei sono definiti “custodi dei patti”, cioè coloro che vigilano sull’armonia del mondo e degli uomini e si prendono cura di ristabilire questa armonia della comunione qualora venga violata; quest’ultimo passaggio della storia del termine “vescovo” mi pare significativo per il definirsi poi del vescovo cristiano. Nel giudaismo di lingua greca Dio stesso è definito panepìskopos, perché egli rivolge verso ogni cosa il suo sguardo provvidente; Egli si prende cura di tutto perché lui solo scruta con verità il cuore degli uomini. Nell’Antico Testamento tradotto in greco il prendersi cura viene riferito al pastore: in Ez 34,11 Dio promette che egli stesso si prenderà cura delle sue pecore.

 

Questo legame tra cura “episcopale” e cura pastorale resterà forte nel Nuovo Testamento, tanto che 1Pt 2,25 può definire sinteticamente Cristo come “pastore e vescovo” delle nostre anime. 1Tm 3,2-3 descrive il vescovo ideale tramite un catalogo di virtù che gli sono necessarie cui si contrappone una serie di vizi da cui deve assolutamente rifuggire. La prima caratteristica necessaria al vescovo è che sia “irreprensibile”. Con questo aggettivo si esprime l’idea di una fortezza salda, inespugnabile, che non può essere conquistata di sorpresa. Poi deve essere “sobrio”. Questo aggettivo è legato all’idea della astinenza dal vino ed ha nella sua origine un significato cultuale, riferendosi ai sacrifici in cui non si offre libagione di vino, perché il vino eccita l’ardore mentre al culto divino si addice moderazione e meditazione. È degno di nota che il testo fa cogliere un legame tra ubriachezza e violenza, perché alla raccomandazione di non essere dedito al vino fa seguire subito il rifiuto della violenza e la scelta per la benevolenza. Ma in 1Tm 3,2 l’aggettivo “sobrio” va oltre il significato di “non ubriaco”, ma assume il senso di attenzione a sé e a Dio che parla. La sobrietà si configura come un costante raccoglimento interiore che permette di contemplare la luce divina in sé e di lasciarsene illuminare. Altra virtù che si richiede al vescovo è la prudenza, ma potremmo anche definirla come “temperanza”.
Il contrario di questa virtù è infatti la dissolutezza che comporta la perdita dell’unità del sé nel lasciarsi trascinare dalla molteplicità delle passioni, perdendo di vista il senso unificante dell’esistenza. L’uomo prudente/temperante è colui che si lascia guidare dall’intelligenza intesa come ragione, che guida le forze vitali e le orienta al vero bene della persona. È evidente che la guida dell’intelletto/ragione è assolutamente necessaria a chi deve essere responsabile, custode e guida di altri esseri umani, dotati di ragione e chiamati a vivere secondo essa, nella quale si riflette l’immagine del Creatore, Somma Intelligenza e Logos/Ragione fondamento di ogni cosa. Da uomo veramente razionale, il vescovo non può non essere “dignitoso”. In greco questo aggettivo è detto dalla parola kòsmios che ha a che fare con la categoria del bello e del suo mostrarsi ed attrarre (da qui i “cosmetici”). La bellezza profonda dell’essere unificato secondo la ragione appare come gradevolezza, sensibilità, affabilità, dolcezza; il vescovo è una persona talmente pacificata e libera dal conflitto passionale che la sua interiorità serena traspare nello stare davanti agli altri, nel suo agire, nel prendersi cura delle persone su cui vigila. La buona relazione con se stesso lo fa essere in buone relazioni con altri, così che è benevolo ed ospitale, capace di aprire le porte del cuore e della casa ad altri, senza sospetti né paure, senza pretese né interessi, tanto che deve essere “non attaccato al denaro”, ma fiducioso nella provvidenza divina.
Queste qualità del vescovo vengono messe alla prova, prima che egli assuma questo incarico, nella guida che egli ha esercitato nella sua famiglia naturale. Solo un buon padre di famiglia, sembra dire Paolo, può essere un buon padre per la famiglia ecclesiale. Le dinamiche familiari chiedono infatti al padre di saper esercitare autorevolezza con amore e saper riconoscere i doni di ciascuno per coltivarli per una piena realizzazione di ciascuno. Il padre deve essere colui che “presiede” alla vita familiare nella carità, per cui la sottomissione ed il rispetto dei figli non sono segni di vile servilismo, ma il riconoscimento della bellezza della verità e del bene che il padre testimonia; egli infatti, dice letteralmente il testo, guida kalòs “con bellezza e bontà” la sua casa. Questa bellezza del bene, questo “splendore della verità”, traluce anche dall’essere “il marito di una sola donna”. Si discute se con questa indicazione Paolo chieda che il candidato vescovo sia convintamente monogamo, – in polemica con usi matrimoniale libertini e disinvolti presenti non solo nel mondo pagano ma anche nell’alto clero gerosolimitano – o si insista sul valore della fedeltà coniugale, non sempre ritenuta importante nel mondo greco, che ritiene il ruolo sociale della moglie ma non disdegna la compagnia delle cortigiane; o ancora se l’Autore chieda al vescovo rimasto vedovo di non risposarsi, come avviene oggi nelle Chiese orientali per i presbiteri sposati. Sembra invece da escludere l’interpretazione avanzata in passato in ambito cattolico, dove faceva difficoltà pensare un vescovo con moglie; si propose così un’interpretazione allegorica, per cui la “sola moglie” era da intendersi come una sola diocesi destinata ad essere guidata da un unico vescovo, che ne è come lo sposo. La prescrizione paolina va invece legata al contesto della Chiesa delle origini, dove non vigeva ancora il celibato ecclesiastico, che diverrà normativo, almeno in Occidente, solo a partire dal VI secolo. In ogni caso rimane permanente il valore positivo della norma che parla di una persona dotata di una affettività matura, capace di una relazione piena e responsabile, una relazione di autentico dono anche nella abnegazione, non preda delle passioni fuggevoli e dominanti. Adornato di tutte queste virtù il vescovo saprà ben dirigere la famiglia di Dio, la Chiesa, ed il suo dirigere sarà un “ragionevole”, sapiente, mite ed amoroso prendersi cura delle pecore acquistate al prezzo del sangue divino.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1) Le virtù chieste al vescovo sono necessarie a chiunque abbia responsabilità per altri: come incarnare queste virtù nelle relazioni in famiglia, nel gruppo, nella parrocchia dove ognuno è chiamato ad essere “custode” del fratello?

2) Quale immagine di Chiesa e di ministero ecclesiale emerge dal ritratto paolino del vescovo?

3) Esercitiamo la Scrutatio Scripturae: leggere in parallelo il nostro brano con At 20,28-35; Tt 1,5-9; 1Pt 5,1-4. Quali tratti comuni e quali differenze tra questi brani che arricchiscono la rivelazione della figura del ministro per la Chiesa.

Don Marco Renda

 

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