Home | Chi siamo | Cosa facciamo | Perché siamo nate | Spiritualità | La nostra storia | Libreria | Fondatore | Famiglia Paolina | Preghiere | Archivio | Links | Scrivici | Area Riservata | Webmail | Mappa del sito

 

PRIMA LETTERA A TIMÒTEO
(6)

 

1Tm 4: i falsi maestri ed il vero maestro in Cristo

Il quarto capitolo della Prima lettera a Timòteo si apre con una profezia dal tono apocalittico, una rivelazione dello Spirito su ciò che accadrà negli ultimi tempi. Leggendo però il testo ci si accorge che l’Autore ha davanti a sé una situazione presente, piuttosto che futura. La Chiesa è minacciata da un insegnamento contrario alla verità del Vangelo ricevuto, e Timòteo è esortato a custodire e difendere la vera dottrina e ad insegnarla ai fratelli perché non cadano nelle suggestioni diaboliche proposte dalle parole di inganno di maestri di falsità. L’insegnamento dei falsi maestri proviene dall’ipocrisia; essi cioè recitano una parte di cui non sono neanche intimamente partecipi, come degli attori, e come tali in cerca dei consensi del pubblico. I loro errori sono suggestioni diaboliche e voce di spiriti ingannatori. In alcuni passi dell’Antico Testamento si parla di spiriti ingannatori che parlano per bocca di falsi profeti per compiacere il re e legittimarlo nel portare avanti una guerra contro la volontà divina, guerra che si concluderà con una disfatta tremenda per il popolo. Così questi spiriti ingannatori lanciano coloro che credono alla loro voce in una battaglia distruttiva. Quello che propongono infatti è impegnativo, come rinuncia alle nozze e digiuni, ma non per una vera ascesi che purifica, bensì per un titanismo morale e spirituale che accomuna alla superbia luciferina. Vengono in mente le severe ammonizioni di Bernardo di Chiaravalle ai suoi monaci, tentati di vantarsi della loro continenza verginale e delle loro penitenze, a cui il santo abate ricorda che senza l’umiltà questo vale a nulla. Questa battaglia tanto aspra quanto vana conduce alla distruzione di sé e della comunità. È l’opera diabolica del divisore, che vuole sempre separare da Cristo e dai fratelli, e rinchiudere in un egoismo centrato su se stesso che si maschera di virtù. A questa battaglia insensata si oppone il vero combattimento della fede, a cui è chiamato Timòteo. Egli deve “allenarsi nella vera fede” (cfr. v. 7), proprio come i suoi contemporanei greci affollavano

le palestre, inseguendo l’ideale della bellezza e della forza fisica. Si tratta dunque di una progressiva crescita nella fede, come fiducia in Dio e nella sua Parola, sempre più conosciuta, meditata ed insegnata. E Paolo stesso si dichiara partecipe di questa costante battaglia in cui “noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo posto la speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono” (cfr. v. 10). L’Apostolo presenta così l’evangelizzazione e l’opera pastorale come un combattimento in cui la fede avanza vittoriosa con la spada della Parola di Dio predicata, che penetra nei cuori e li apre a conversione. Il vero maestro non è mosso da ipocrisia ed egoismo, ma è fondato sulla Parola di Dio e di essa è tramite. Il maestro cristiano non risponde a categorie umane, per questo la giovane età non deve essere preclusione al suo ministero; egli infatti non insegna una dottrina sua, frutto dell’esperienza e della saggezza degli anni, ma è il trasmettitore della dottrina di Cristo. Egli ha ricevuto un dono per l’imposizione delle mani e la parola profetica. Il gesto dell’imposizione delle mani sembra rimandare a Nm 27,18-23 in cui Giosuè è scelto come successore di Mosè a guida del popolo tramite indicazione dei vaticini e stabilito proprio con il gesto della imposizione delle mani. In questo episodio biblico la tradizione ebraica vede non solo il passaggio di consegne del potere di guida del popolo, ma anche l’inizio della catena della trasmissione dell’autentico insegnamento divino dato sul monte Sinai; si dice infatti che Dio diede la Legge a Mosè, questi la consegnò a Giosuè il quale la trasmise ai settanta anziani e da essi a tutti i saggi di Israele.
Alla luce di ciò, Timòteo ci è presentato come il custode carismatico e ministeriale dell’autorità pastorale nella comunità, che consiste nell’insegnare la dottrina, esortare al giusto comportamento, guidare la comunità nel suo cammino verso il Signore. La sua autorevolezza non proviene dalla canizie, ma dall’essere adulto nella fede, per cui ha acquistato una autorevolezza esemplare, dovuta ad una vita conforme alla parola che annuncia. Questo proviene innanzitutto dall’ascolto.
Nei nostri giorni in cui sembra virtù solo la spontaneità e la nostra Chiesa sembra sempre più ammalata di anti-intellettualismo fa bene ascoltare il monito paolino che esorta Timòteo anzitutto alla lettura (cfr. v. 13). L’esercizio salutare della lettura, innanzitutto della Sacra Scrittura, e poi dei padri e maestri nello Spirito, salva da diventare come i falsi maestri, cioè capaci di far riferimento solo a se stessi. La lettura mette nell’umiltà dell’ascolto ed arricchisce di tutti i doni che il Verbo, che semina ovunque i suoi semi, ha disseminato nella vita della Chiesa e dell’umanità. Chi pensa di non avere niente da imparare non ha davvero nulla da insegnare. Timòteo, nutrito da sante letture, può esortare ed insegnare, richiamare ciò al retto comportamento ed illuminare il senso della fede. Per un cristiano, per il quale in principio non sta l’azione ma la Parola/ Logos, capire sempre più il senso teologico della fede è necessario per vivere in modo spirituale, offrendo a Dio il culto “logico” della vita, il culto secondo la parola come esorta Rm 12,1. Fuggendo la lettura si finisce dietro alle “favole, roba da vecchie donnicciole” (cfr. v. 7). Le favole cui fa riferimento l’Autore sono probabilmente i miti ellenistici, miti sincretistici in cui le storie degli dei dell’area mediterranea erano mischiate e confuse, magari velate da una sorta di teosofia, di dottrina misticheggiante. Non siamo poi così lontani da simili modi di pensare: basti notare quanti credenti rifuggono dalla lectio divina e dalla teologia, ma sono ghiotti di presunti messaggi ultraterreni, che magari arrivano con cadenza quindicinale, accompagnati da racconti fantastici sull’aldilà, su segreti apocalittici, su visioni più o meno misteriose, come documenti celesti la cui scrittura solo alcuni possono vedere, come i vestiti nuovi dell’imperatore della famosa favola.
Ma ci resta da dire una parola sull’insegnamento proposto dai falsi maestri. Le indicazioni dell’Autore della Lettera sono scarne. Sono definiti “gente che vieta il matrimonio ed impone di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato perché i fedeli e quanti conoscono la verità li mangino rendendo grazie” (v. 3). Potremmo pensare che costoro siano portavoce di istanze sincretistiche nate dall’incontro di un estremismo stoico con forme di assolutizzazione delle norme giudaiche sui cibi impuri. In ogni caso l’Autore avverte chiaramente il pericolo teologico insito in questi comportamenti apparentemente virtuosi, il pericolo di negare la bontà della creazione e dunque del Creatore. Negli anni successivi al nostro scritto si svilupperanno correnti di pensiero dualiste che negheranno che il mondo è stato creato dal Dio buono di cui parla il Nuovo Testamento e riterranno la materia negativa, nata da un dio minore malvagio, ignorante e superbo, per cui la salvezza consisterà nell’uscire da tutto ciò che è materiale: il matrimonio e la generazione, poiché crea nuova vita fisica, saranno considerati in questa prospettiva come lo strumento di un creatore folle per avere sempre nuovi sudditi ed imprigionare le anime. Un tardo rigurgito di queste visioni apparirà nell’eresia catara che travaglierà l’Europa cristiana nei primi secoli dopo l’anno Mille. Il famoso romanzo di Dan Brown, Il codice da Vinci, ha presentato i catari come i custodi del segreto del matrimonio di Gesù con la Maddalena e della sua discendenza carnale: basta conoscere il pensiero cataro per comprendere quanto assurdo sia che proprio presso di loro si conservasse una simile idea! Ma ancora piace a molti andare dietro a favole, roba da donnicciole, anziché applicarsi alla lettura ed allo studio che porta alla conoscenza della verità.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1) Nel corso della storia della spiritualità cristiana talvolta sembrano aver vinto i fautori del disprezzo della creazione: sono ancora presenti rivoli di spiritualità malate che negano la santità della creazione divina? Come combatterli? Come proporre una sana spiritualità dell’uso delle realtà create, della sessualità sia per i coniugati che per chi è chiamato alla verginità per il Regno?

2) Quale spazio occupa nella mia formazione spirituale la lettura e lo studio serio della Scrittura, della teologia e delle fonti dell’autentica spiritualità cristiana? Scelgo le mie letture in base alle mode, alla facilità o cerco nutrimenti solidi nel patrimonio che la Chiesa mi consegna?

3) Conservo ed aiuto altri a coltivare uno sguardo critico su presunte apparizioni, messaggi celesti e simili realtà? Come promuovo, nelle realtà pastorali in cui vivo, l’ancoramento alla Parola di Dio ed alle fonti autentiche della teologia e della spiritualità cristiana?

Don Marco Renda

 

torna su