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IL VANGELO SECONDO MARCO
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Il contrasto sulla pratica del digiuno e sull’osservanza del riposo nel giorno di sabato (2,18-3,12)

Il terzo contrasto tra Gesù e i suoi interlocutori verte sul digiuno, che all’epoca del Nuovo Testamento era divenuta una pratica assai frequente presso alcune categorie, come “i discepoli di Giovanni [Battista]” e “i discepoli dei farisei” (ricordati in Mc 2,18), senza però precisarne le modalità. Nel testo parallelo di Matteo (9,14-17) si legge che i discepoli di Giovanni e i farisei digiunano “molte volte”, mentre in quello di Luca il digiuno è praticato da questi gruppi “spesso” (Lc 5,33). Inoltre in Lc 18,12 (dove è narrata la parabola del fariseo e del pubblicano nel tempio), il fariseo dichiara nella sua preghiera: “Digiuno due volte alla settimana”. Per la verità, il digiuno era prescritto nell’ebraismo solamente nel giorno in cui si celebrava “il rito dell’espiazione”.
È, questo, il giorno chiamato tuttora JòmKippùr (dall’ebraico Jòm, “giorno”, e Kippùr, “espiazione”). Lo si celebrava secondo le norme racchiuse in Lv 16,1-34 e in seguito, dopo la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio (70 d.C.), quando non fu più possibile offrire i sacrifici nel tempio, venne regolato dalle norme di uno dei trattati del giudaismo intitolato Jomà, cioè “il Giorno”, inteso come il giorno per eccellenza, quale era lo JòmKippùr, che si celebrava il giorno 10 del mese di Tishri (ottobre-novembre). Nel giudaismo dell’epoca neotestamentaria la pratica del digiuno si era diffusa spontaneamente presso alcuni gruppi che l’avevano prescritta in due giorni settimanali (lunedì e giovedì).

Le prime comunità cristiane seguirono questa consuetudine, ma fissarono i giorni del digiuno al mercoledì e al venerdì (con un chiaro riferimento alla morte di Gesù, avvenuta il venerdì della passione, quando “lo sposo venne tolto”, come leggiamo in Mc 2,20). Da parte sua Gesù non formulò alcuna modalità per la pratica del digiuno.
Probabilmente è per questo che Marco non accenna al digiuno di Gesù nel racconto delle tentazioni (Mc 1,12- 13), mentre vi accennano Matteo e Luca (Mt 4,2: “dopo aver digiunato quaranta giorni”; Lc 4,2: “non mangiò nulla in quei giorni”). Nel vangelo secondo Matteo, che è più sensibile alle pratiche del giudaismo (preghiera quotidiana, digiuno, elemosina) perché ha come destinatari coloro che provengono dal mondo giudaico, troviamo la raccomandazione di Gesù a evitare ogni ostentazione: “Quando digiunate non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere che digiunano […] Invece quando tu digiuni profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,16-18). Del resto era ben nota a Gesù la svolta data dai profeti alla pratica del digiuno. Come leggiamo in Is 58,1-12, la predicazione dei profeti inculcava una “spiritualità del digiuno”, che eliminava ogni esteriorità e formalismo.
Alla domanda dei suoi interlocutori, che vogliono sapere perché i suoi discepoli non digiunano, Gesù non risponde direttamente, ma li invita a considerare la novità che egli sta introducendo nel mondo delle loro tradizioni e delle loro pratiche religiose. Quello di Gesù è ora il mondo rinnovato, il cui centro è lui, il Messia atteso e promesso come lo sposo che inaugura il tempo della gioia con il suo banchetto di nozze (un’immagine, questa, cara alla tradizione biblica ed evangelica per esprimere la salvezza e la gioia del tempo messianico). Non si può quindi digiunare, ora che il Messia atteso e promesso è arrivato (e con lui il Regno di Dio) e la sua presenza ora riempie il mondo dell’uomo. Solo quando questa presenza verrà meno la comunità dei discepoli di Gesù (la Chiesa) digiunerà, per conservarsi nello stato di continua conversione a Gesù e alla novità del suo vangelo, regola della loro vita. L’espressione “verranno giorni quando lo sposo verrà loro tolto” si riferisce alla morte di Gesù e allude nello stesso tempo alla morte violenta del Servo del Signore, figura del Cristo sofferente (come si legge in Is 53,8: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo”).
Le parole di Gesù “allora, in quel giorno digiuneranno” si possono intendere come allusione alla sua morte, fissata tradizionalmente nel giorno di venerdì, che la comunità cristiana adotterà come giorno di digiuno che ricorda questo evento della nostra salvezza e il cammino quotidiano del discepolo verso la croce e la pasqua. Con le due immagini del “pezzo di stoffa” e del “vino nuovo” (Mc 2,21-22) Gesù rivela il centro della sua missione: la novità. Le tradizioni religiose di Israele, sebbene ricche di storia e di meriti, sono ormai giunte al loro punto di arrivo. Ad esse ora si sostituisce la novità del vangelo che dà inizio non a una ulteriore codificazione di queste tradizioni, che soffocano il credente, ma a una nuova epoca di libertà, di verità, di gioia messianica e di salvezza. Come nel vangelo secondo Giovanni Gesù a Cana trasforma nella novità del vino l’acqua della tradizione dei giudei (Gv 2,1-12), così ora Gesù sostituisce il vestito vecchio e gli otri vecchi delle tradizioni di Israele con il vestito nuovo e gli otri nuovi del suo vangelo.
Il contrasto che sorge tra Gesù e i farisei sull’osservanza del riposo del sabato (Mc 2,23-3,6) è presentato da Marco attraverso due episodi significativi. Il primo (quello delle spighe di grano che i discepoli raccolgono in giorno di sabato: 2,23-28) allude alle rigide prescrizioni che regolavano il riposo del sabato e che il giudaismo aveva codificato proibendo in questo giorno sacro ben trentanove lavori (compreso quello di preparare il cibo, come fanno i discepoli di Gesù raccogliendo le spighe). Il secondo episodio (Mc 3,1-6) riguarda la libertà che Gesù dimostra nei confronti dell’interpretazione restrittiva del riposo del giorno di sabato, che escludeva anche la cura dei malati. Con il miracolo della guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata Gesù proclama la novità del suo vangelo: il primato assoluto del comandamento dell’amore e della misericordia sul rigore e sul legalismo delle tradizioni religiose.
Nel primo episodio, Gesù, che era ritenuto responsabile del gruppo dei discepoli, li giustifica davanti ai farisei che li accusavano di non osservare il riposo del sabato, appellandosi a un’azione simile compiuta da Davide “quando lui e i suoi compagni ebbero fame”. Per sfamarsi essi mangiarono i pani riservati esclusivamente ai sacerdoti, grazie alla concessione del sommo sacerdote Abiatàr (cfr. 1Sam 21,2-7, dove però il sommo sacerdote è Achimèlec e forse Marco segue una tradizione che presentava Abiatàr [o Ebiatàr] come padre di Achimèlec; cfr. 2Sam 8,17).
Questo episodio si conclude con un detto di Gesù che ribadisce la novità e la libertà che distinguono il vangelo dalle rigide tradizioni di Israele: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27). Il sabato (dall’ebraico shabàt, “riposo”) è il dono che Dio ha fatto all’uomo nell’ultimo giorno della creazione, quando egli si “riposò”, perché anche l’uomo lo potesse dedicare al riposo e alla contemplazione, alla gioia e al culto (cfr. Gen 2,1-3; Es 20,8-11). Ma la tradizione religiosa di Israele, con le molte prescrizioni, rischiava di soffocare questo significato primario del sabato come dono del Signore e fonte di liberazione e di gioia per l’uomo (e non una gabbia). Anche l’ultima precisazione di Gesù rafforza il primato dell’uomo sul sabato: “Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc 2,28). Il termine “figlio dell’uomo” nel suo primo significato può indicare l’uomo in quanto tale, quindi ogni uomo che, come Adamo, è stato costituito “signore” di tutto il creato, e quindi anche del sabato, di cui può disporre con libertà. Ma “figlio dell’uomo” è allo stesso tempo un titolo cristologico. Perciò Gesù è il “nuovo Adamo” che, con la sua Pasqua, è stato costituito Kyrios (“Signore”) su tutte le cose ed estende la sua signoria anche sul sabato.
Proprio come era la signoria di Yhwh su questo giorno di riposo, tutto consacrato al suo “onore” (cfr. Lv 23,3: “il settimo giorno è sabato, giorno di assoluto riposo e di riunione sacra. Non farete in esso lavoro alcuno; è un sabato in onore del Signore in tutti i luoghi dove abiterete”). Nel secondo episodio, quello della guarigione del malato dalla mano paralizzata, compiuto nella sinagoga di Cafarnao, Gesù pone in risalto il primato dell’amore di Dio, che si esprime nella sua volontà di operare sempre per il bene dell’uomo (la salute, la vita). Marco, a differenza di Luca (6,6), colloca questo miracolo di guarigione nello stesso sabato dell’episodio delle spighe raccolte dai discepoli. La normativa giudaica del sabato prescriveva che la seconda violazione del riposo del sabato, dopo che il trasgressore era stato ammonito, doveva essere punita con la morte.
Questo può spiegare l’annotazione finale di Marco: “I farisei uscirono subito con gli erodiani [i sostenitori di Erode Antipa che governava la Galilea, dove si trovava Cafarnao] e tennero consiglio contro di lui [Gesù] per farlo morire” (Mc 3,6). Come nell’episodio delle spighe i farisei avevano rimproverato Gesù e i discepoli di compiere ciò che non è lecito fare in giorno di sabato, ora invece è Gesù a spiegare loro ciò che è lecito fare in questo giorno di riposo. Di fronte al male che colpisce l’uomo (come la malattia), Dio vuole sempre il suo bene (come è la guarigione) e di fronte a una vita in pericolo, Dio non vuole la morte (“ucciderla”), ma la salvezza (“salvare una vita”, cioè salvare un uomo). A questa totale apertura di Gesù alla volontà del Padre si oppone la “durezza” di cuore dei farisei e dei suoi oppositori (“rattristato per la durezza dei loro cuori”).
Il termine usato da Marco è il greco pòrosis, dal verbo poròo, che indica ciò che non permette di assorbire e assimilare. Indica perciò la chiusura alla volontà di Dio e alla sua parola e diviene il verbo dell’incredulità sia in Marco (3,5; 6,52; 8,17), sia in Paolo (Rm 11,7.25; 2Cor 3,14; Ef 4,15). Non assimilando più la parola di Dio, il cuore dell’uomo (cuore inteso come “sede” delle decisioni e delle scelte) si chiude alla volontà di Dio per far prevalere la propria volontà e per compiere scelte e perseguire progetti che non sono più quelli di Dio. L’apertura di Gesù alla volontà del Padre produce i suoi mirabili effetti, descritti nei versetti 7-12 del capitolo 3. Una vasta regione abitata da Giudei (Galilea, Giudea, Gerusalemme) e da pagani (Idumea, Tiro e Sidone) diventa beneficiaria della missione di Gesù, che si esprime nella predicazione del vangelo, nelle guarigioni dalle malattie e negli esorcismi, cioè nella parola e nei gesti (che sono i due modi con cui Dio rivela se stesso in Gesù). Marco non esita a dilatare gli effetti della missione di Gesù, ricorrendo a espressioni che, nel suo pensiero, hanno lo scopo di suscitare l’entusiasmo e la meraviglia del lettore: le folle quasi schiacciano Gesù e molti si gettano su di lui anche solo per toccarlo ed essere così guariti. Anche gli spiriti impuri (uno dei nomi che viene dato al demonio nei vangeli) riconoscono questo successo di Gesù, dal momento che da lui venivano cacciati.
Essi lo riconoscono come “Figlio di Dio” (“cadevano ai suoi piedi e gridavano: Tu sei il Figlio di Dio”). Ma Gesù li fa tacere, perché egli vuole che la sua vera identità di Figlio di Dio venga svelata nella umiliazione della croce e non nel successo dei miracoli: “Ma Gesù impose loro severamente di non svelare chi egli fosse”. Questo richiamo al silenzio sull’identità di Gesù e a non divulgare la notizia dei miracoli da lui compiuti è assai frequente lungo il vangelo secondo Marco (cfr. 1,24ss; 1,34; 1,44; 3,11ss; 5,43; 7,36; 8,30; 9,9; 9,32). È poi stato accolto anche dagli altri evangelisti (Matteo e Luca). Gli esegeti individuano in questo richiamo al silenzio quello che è stato definito il segreto messianico. Questa espressione, come abbiamo già notato precedentemente, è stata introdotta nello studio dei vangeli (in particolare di quello secondo Marco) dall’esegeta tedesco Wilhelm Wrede (1859-1906). Gli spiriti maligni o impuri (come spesso viene chiamato il demonio nei vangeli) conoscono l’essere divino di Gesù, perciò egli proibisce loro di parlarne. I suoi uditori infatti devono giungere al suo riconoscimento di Messia e Figlio di Dio unicamente per mezzo della fede, attinta alla umiliazione della croce e confermata dalla gloria della Pasqua.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1. Nella nostra pratica religiosa (preghiera quotidiana, partecipazione all’Eucarestia domenicale e feriale, recita della Liturgia delle Ore, confessione, direzione spirituale, correzione fraterna, digiuno, penitenza) come possiamo esprimere la gioia di avere con noi Gesù Messia, Sposo, Fonte del “vino nuovo”, Annunciatore del Regno che ci veste con il “vestito nuovo” del suo Vangelo?

2. L’opposizione di Gesù alle tradizioni religiose dei suoi contemporanei ci fa comprendere che nulla va anteposto all’amore di Dio e all’amore dell’uomo. È, questo, un richiamo anche per noi oggi di fronte ai molti problemi umani che ci interpellano: disoccupazione, immigrazione, povertà, malattia, solitudine, degrado. L’invito di Gesù è a non chiuderci nell’atteggiamento della “durezza del nostro cuore” (pòrosis) giustificandoci con le nostre tradizioni (religiose, etniche, sociali, culturali), ma ad aprirci alla volontà di Dio, che persegue sempre il bene di ogni sua creatura.

3. Il “sabato” biblico è per noi il giorno che dedichiamo alla festa e al riposo, al Signore risorto nel giorno che gli è dedicato (la domenica, che significa proprio “giorno del Signore”, in latino Dominus). Il giorno di festa è ancora per noi un “dono” di Dio? Il giorno di festa favorisce ancora per noi, come per il credente della Bibbia, la dimensione contemplativa della nostra vita e relazioni sempre più fraterne nel nostro ambiente (famiglia, istituto, lavoro, parrocchia, svago)?

Don Primo Gironi, ssp

 

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