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IL VANGELO SECONDO MARCO
(19)

 



La trasfigurazione di Gesù (Mc 9,2-13)

L’episodio della trasfigurazione di Gesù, comune ai tre vangeli sinottici (cfr. Mt 17,1-8; Mc 9,2-13; Lc 9,28-36), è divenuto ormai familiare, perché viene letto abitualmente nella seconda domenica di Quaresima di ogni anno nelle nostre chiese. Nel contesto del tempo quaresimale il suo significato è quello di indicare la vera finalità della pratica del digiuno e delle opere di carità di questo particolare tempo di penitenza (cioè la trasformazione/trasfigurazione di tutta l’esistenza del battezzato). Ma nel suo contesto evangelico originario questo episodio colloca al centro della storia della salvezza la persona di Gesù (“Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”) e anticipa il mistero di gloria della sua morte e risurrezione (“[Gesù] ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti”).
La presenza di Elia e di Mosè (“apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù”) evoca due grandi protagonisti della storia racchiusa nella Bibbia. Elia (nominato per primo a motivo del frequente ricordo che di lui fanno gli evangelisti) rappresenta il movimento profetico, che tanto ha influito nella storia della salvezza. Nel nome di Mosè invece converge tutta la Legge, i cui insegnamenti hanno plasmato il cuore dell’uomo della Bibbia all’ascolto e all’obbedienza nei confronti di Dio e della sua Parola (“Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio… Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze”; Dt 6,4-5). Il lettore, che si identifica nei tre discepoli presenti a questo evento straordinario, comprende che l’ascolto e l’obbedienza sono ora due atteggiamenti che convergono unicamente in Gesù, Parola definitiva del Padre (“Ascoltatelo!”). Questo evento della vita di Gesù, che richiama e si ispira alle teofanìe (o apparizioni di Dio) presenti nella Bibbia nel contesto di fenomeni cosmici (cfr. Es 19,16-25: l’apparizione di Dio a Mosè tra fulmini, nubi e tuoni; 2Re 19,9-18: l’apparizione di Dio a Elia tra fuoco e vento) è da Marco collocato in una precisa cornice temporale

(“sei giorni dopo”). Si tratta probabilmente dell’arco di tempo che segue la professione di fede di Pietro (riportata sopra in 8,29: “Tu sei il Cristo”) e il primo annuncio della passione fatto da Gesù ai discepoli, annuncio che tanto li aveva turbati e disorientati (cfr. Mc 8,31-33). Da una parte perciò la trasfigurazione mette in piena luce l’identità di Gesù, che Pietro ha già riconosciuto con la sua professione di fede: Gesù è il Figlio amato del Padre (cfr. Mc 9,7). Dall’altra illumina il mistero della sua morte appena annunciata ai discepoli (cfr. Mc 8,31) con lo splendore della sua risurrezione, simboleggiato nelle “vesti splendenti, bianchissime”, che ora ricoprono il corpo trasfigurato di Gesù. Senza questo “anticipo” dello splendore di Pasqua (che sarà simboleggiato nelle “vesti bianche” del giovane seduto accanto al sepolcro: cfr. Mc 16,5) la croce sarebbe stata per i discepoli velata dal buio dell’incomprensione e dell’incredulità. Protagonista di questo evento è innanzi tutto il Padre. È lui che guida la storia della salvezza e guida nello stesso tempo la missione di Gesù. Il verbo “fu trasfigurato” (“fu trasfigurato davanti a loro”) è da leggere come un passivo teologico, cioè un verbo che esprime l’azione di Dio: è Dio – il Padre – che trasfigura Gesù. Il passivo teologico (o divino) infatti è uno dei modi con cui la Bibbia sostituisce il nome di Dio, che non può essere pronunciato (“Non pronuncerai invano il nome del Signore [=Jhwh] tuo Dio”: Es 20,7).
Accanto al Padre, ecco Gesù. È lui che “sale” sul monte, evidenziando con questo movimento alcune “salite” decisive per la storia della salvezza (nella quale “salire sul monte” è l’immagine dell’incontro con Dio). Nell’Antico Testamento pensiamo alla “salita” di Abramo sul monte Mòria (cfr. Gen 22,1-19), a quella di Mosè sul monte Sinai (cfr. Es 19,3-25) e a quella di Elia sull’Oreb (cfr. 1Re 19,1-9). Guida a questa “salita” è la fede. Nel Nuovo Testamento Gesù esprime questa fede presso il monte delle tentazioni (dove la fede è messa alla prova), presso il monte della trasfigurazione (dove la fede appare in tutta la sua luminosità) e presso il monte del Gòlgota/Calvario (dove la fede è abbandono totale e fiducioso al Padre). Infine i discepoli. Sono Pietro, Giacomo e Giovanni, i quali frequentemente nei vangeli sono testimoni privilegiati di eventi significativi per la missione di Gesù e per la testimonianza alla sua persona. Gesù li aveva già distinti dagli altri, dando loro un nuovo nome (Pietro a Simone e Boanèrghes [= “figli del tuono”] a Giacomo e Giovanni: cfr. Mc 3,16-17). Essi vengono presi “in disparte” da Gesù. L’avverbio “in disparte” (in greco, kat’idìan), che già abbiamo incontrato, ha il significato di introdurre i discepoli nella profondità dell’insegnamento e della missione di Gesù, della sua persona e del suo destino per una comprensione più piena del suo mistero. È ciò che avviene per Pietro.
Se nel racconto di Marco egli ha una prima reazione piuttosto imbarazzante e istintiva (“Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”), in seguito, nella sua Seconda Lettera ci offre una riflessione più profonda e più aderente al mistero della persona di Gesù e alla storicità della sua missione: “Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18). Sceso dal monte (che alcuni Padri della Chiesa, come Girolamo, identificano con il Tabor), Gesù impone ai discepoli il silenzio sull’accaduto. Si tratta del segreto messianico, che verrà svelato solo nel compiersi del mistero della croce e della pasqua, dove apparirà la vera identità di Gesù. Solo dopo la risurrezione i discepoli potranno annunciare il mistero di Cristo in tutta la sua pienezza (nell’umiliazione della croce e nella gloria della risurrezione). Il riferimento a Elia (“Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”) si spiega con la convinzione, radicata presso gli ebrei, che questo profeta avrebbe preceduto, con il suo ritorno, la venuta (o “il giorno”) del Signore, come si legge nel libro di Malachia: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23-24). Anche Gesù conosce questa aspettativa e svela ai suoi discepoli che essa è già stata realizzata nella persona di Giovanni Battista, che lo ha preceduto anche nel suo destino di morte sulla croce (“Io però vi dico che Elia è già venuto e gli hanno fatto quello che hanno voluto, come sta scritto di lui”).

La guarigione di un ragazzo epilettico (Mc 9,14-29)

La discesa dal monte della trasfigurazione colloca nuovamente Gesù nel contesto della vita quotidiana che, però, ora è illuminata dallo splendore “pasquale” (come appare dai verbi usati per la guarigione del ragazzo, che sono quelli della risurrezione: “Lo fece alzare ed egli stette in piedi”). Il resto dei discepoli che non era stato presente alla teofanìa sul monte è raggiunto da Gesù, mentre discutono con la folla. Infatti questi discepoli non erano riusciti a liberare da “uno spirito muto e sordo” un ragazzo che era stato condotto loro dal padre, nella speranza di una guarigione mediante l’esorcismo. Gesù è preso da uno scatto d’ira al vedere che i discepoli ancora non avevano interiorizzato il suo insegnamento e non avevano compreso le motivazioni profonde che rendevano possibile la sua vittoria sui demoni (“Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?”). A motivo di questa incomprensione essi non avevano saputo affrontare la dolorosa situazione del ragazzo che, secondo la descrizione del padre, probabilmente soffriva di epilessia. Infatti la motivazione che sottostà ai miracoli di Gesù è la sua piena adesione alla volontà del Padre e la sua intensa relazione filiale con lui, caratterizzata dalla preghiera.
Ecco perché Gesù dice ai discepoli che solo con la preghiera si può scacciare il demonio (“Questo genere di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera” [alcuni codici aggiungono: “e con il digiuno”]). La preghiera per i discepoli è porsi con fede alla sequela di Gesù (sequela che significa anche “imitazione” di lui) e percorrere con lui la via della Croce e dell’obbedienza al Padre “Perché noi non siamo riusciti a scacciare questo demonio?”, chiedono i discepoli a Gesù. Gli pongono questa domanda “in privato”, espressione che nei Vangeli indica l’intimità del rapporto di Gesù con i discepoli e la dimensione profonda della formazione che egli intende dare loro. La non riuscita del loro tentativo è dovuta al fatto che essi, come la folla (che ritiene ormai “morto” il ragazzo), non hanno una fede profonda nella persona di Gesù. Essi pensano che un esorcismo si possa compiere come si compie un atto di magia o come se fosse la dimostrazione di una particolare capacità guaritrice. Non comprendono ancora che il demonio è il vero avversario del Regno e che lo si scaccia unicamente all’interno di una prospettiva di fede (e di preghiera). Per questo Gesù chiama i discepoli “generazione incredula” e si domanda come potrà avere successo la sua opera educatrice di Maestro, di fronte alla loro mancanza di fede. E questa fede che non trova nei discepoli, Gesù la trova nel padre del ragazzo, il quale così diventa il modello del vero discepolo che chiede al Maestro di educarlo alla fede per superare la sua incredulità: “Credo: aiuta la mia incredulità”.

Il secondo annuncio della passione e la centralità dei “piccoli” (Mc 9,30-37)

Il secondo annuncio della passione fa parte dell’insegnamento che Gesù dà ai discepoli per prepararli agli eventi della morte e della risurrezione. Il clima di segretezza in cui Gesù vuole che avvenga questo insegnamento (“non voleva che alcuno lo sapesse”) indica che egli desidera riservare ai soli discepoli un tempo speciale di formazione, che li aiuti a entrare nella volontà del Padre, che ha stabilito nel cammino verso la Croce la missione di Gesù. Anche lo stare seduti indica nella Bibbia l’atteggiamento del maestro che intende dedicare tempo e attenzione per un insegnamento importante da comunicare ai suoi discepoli (o qualcosa da correggere in loro): «Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e il servitore di tutti”». I discepoli devono perciò imparare a correggersi dalla mentalità mondana che si sono formati, non comprendendo il vero significato del messianesimo di Gesù, che non è quello del successo e della ricerca della grandezza (“Per la strada avevano discusso tra loro chi fosse il più grande”), ma è quello del Figlio dell’uomo, cioè del Servo sofferente che cammina verso la Croce e muore a se stesso.
Questa mentalità mondana, costruita sul desiderio del potere e sulla ricerca di ruoli di prestigio che affàscinano i discepoli (“Chi è il più grande tra noi?”), offre a Gesù l’occasione di dare loro un insegnamento sulla nuova mentalità da assumere, quella del servizio e dell’umiltà evangelica (“Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e il servitore di tutti”). Gesù che pone “in mezzo” il bambino e lo abbraccia opera la conversione della mentalità mondana dei discepoli. “In mezzo”, cioè al centro, va posto non il più grande (o il più colto o il più quotato nei sondaggi), ma il più piccolo, il più debole, il peccatore, il fratello o la sorella che abbiamo emarginato dal centro della nostra comunità. Essi sono, nella comunità di Gesù, i veri “grandi”. E l’abbraccio di questo bambino, che si esprime con l’aprire le braccia da parte di Gesù, anticipa già le braccia aperte del Maestro Crocifisso, che dalla Croce rivela la nuova mentalità del servizio e dell’umiltà evangelica di cui egli si è rivestito e che ha insegnato ai discepoli e a tutti noi.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1. La trasfigurazione di Gesù da una parte illumina il mistero della croce e anticipa il mistero della pasqua, dall’altra rivela ai discepoli la loro chiamata a conformarsi al loro Maestro, attraverso quell’atteggiamento fondamentale che la Bibbia e il Vangelo identificano nell’ascolto (“Ascoltatelo!”). “Ascoltare” è il verbo che guida alla santificazione il discepolo di Gesù. Possiamo anche riflettere sul significato profondo di questo verbo, lasciandoci guidare dalle parole del nostro beato Fondatore: “Il processo di santificazione è un processo di cristificazione:donec formetur Christus in vobis” [“finché si formi Cristo in voi”]” (dal Bollettino San Paolo, febbraio-marzo-aprile 1965).

2. Tutta l’opera di Gesù (predicazione, miracoli, segni, formazione dei discepoli) è motivata dalla sua obbedienza alla volontà del Padre e dalla relazione filiale che ha con lui nella preghiera. Alla nostra attività apostolica veniamo noi pure esortate a porre come fondamento una profonda adesione alla volontà di Dio e un’intensa relazione filiale con lui nella preghiera. Con il richiamo a porre questo duplice fondamento anche al nostro apostolato, Gesù sembra esortarci a realizzare nella nostra vita la preghiera del Salmo 127: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano vigila la sentinella” (vv. 1-2).

3. Anche per noi Gesù è il Maestro che ogni giorno ci parla “in privato”, cioè nel profondo della nostra intimità con lui (nell’Eucarestia, nella Liturgia delle Ore, nell’Adorazione). Lui solo ha la capacità di ravvivare con il fuoco della sua parola la nostra tiepida fede e di mettere sulle nostre labbra la supplica del padre del ragazzo guarito: “Credo: aiuta la mia incredulità”.

Don Primo Gironi, ssp

 

 

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