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IL VANGELO SECONDO MARCO
(23)

 

“È lecito o no pagare il tributo a Cesare?” (Mc 12,13-17)

La domanda sulla liceità del pagamento delle tasse da parte dei giudei all’amministrazione imperiale di Roma (“È lecito o no pagare il tributo a Cesare [= l’imperatore di Roma]? Lo dobbiamo dare o no?”) viene formulata con una ambiguità che rispecchia la diversa posizione degli interlocutori di Gesù. Infatti questa seconda controversia ha come protagonisti da una parte i “farisei”, decisamente contrari al pagamento del tributo, e dall’altra gli “erodiani”, di opinione favorevole (la famiglia di Erode era sempre stata in buoni rapporti con Roma, dalla quale aveva ricevuto non pochi privilegi e benefici). La tassa che ogni singolo suddito dell’impero doveva versare all’amministrazione di Roma era il tributum capitis (o pro capite). Era perciò il segno del riconoscimento di un potere straniero che per gli ebrei contrastava con l’assoluta sovranità di Dio su di loro e con il dono della terra da lui ricevuto. L’ambiguità degli interlocutori si rispecchia anche nelle parole di lode che essi rivolgono subdolamente a Gesù. Il titolo di “Maestro veritiero” e “imparziale” (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) e l’espressione che segue immediatamente (“insegni la via di Dio secondo verità”) diventano sulle loro labbra un argomento di pressione su Gesù, per indurlo a pronunciarsi contro il potere straniero (e così prestare il fianco all’accusa di ribellione). Non avevano compreso che per Gesù tutto questo indicava la sua profonda adesione alla volontà del Padre (“la via di Dio”) e la sua franchezza nel compierla fino alla croce (“non hai soggezione di alcuno”). Non esprimeva, come pensavano loro, una attitudine umana che lo rendeva capace di destreggiarsi nell’ambito della politica e negli equilibri di potere. Gesù smaschera subito questa ambiguità degli interlocutori (conosceva “la loro ipocrisia”, annota Marco), portandoli alla realtà della loro vita quotidiana, nella quale si intrecciano il rapporto con l’autorità costituita e il rapporto con Dio. A “Cesare” (cioè al potere costituito) è necessario restituire i benefici che gli stessi giudei da lui ricevono (“Quello che è di Cesare, rendetelo a Cesare”), versando il “denaro”, su cui appare l’immagine dell’imperatore, un’immagine mutevole e limitata al territorio su cui si estende la sua autorità, a differenza dell’immagine di Dio nell’uomo (che non è mutevole) e della sovranità di Dio (che non conosce limiti). “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”: il riferimento all’immagine dell’imperatore (allora Tiberio, che governò dal 14 al 37 d.C.),

con l’iscrizione esplicativa incisa sul “denaro” (moneta d’argento con cui si pagava il tributo) richiama a Gesù un’altra “immagine”, quella che la Bibbia vede incisa e iscritta nell’uomo («Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”»; Gen 1,26-27). “[Restituite] quello che è di Dio, a Dio” è perciò la proclamazione del primato di Dio sull’uomo. Il denaro va restituito a Cesare a motivo dell’immagine che gli dà il diritto di riscuoterlo. Ma l’uomo nella sua totalità e nella sua identità più vera e profonda va restituito unicamente a Dio, di cui è l’immagine. Questa immagine non è quella dei molti Cesari che detengono il potere e che si susseguono nella storia (dal tempo di Gesù fino ad oggi), ma che non possono arrogarsi il primato sull’uomo, che spetta solo a Dio.

La risurrezione dei morti (Mc 12,18-27)

Sono ora i sadducei a dare inizio a questa terza controversia con Gesù. Il loro nome era legato alla discendenza della famiglia sacerdotale di Sadok (cfr. Ez 40,46; 1Re 2,35) e nella società giudaica costituivano la classe aristocratica, aperta agli influssi dell’ellenismo (come era chiamata la cultura greco-romana dell’epoca del Nuovo Testamento) e non contraria alla dominazione di Roma. I sadducei riconoscevano come ispirati e determinanti per la loro fede solamente i primi cinque libri della Bibbia (la Toràh o Pentateuco) e si attenevano ai soli loro insegnamenti. Essi negavano la risurrezione dei morti perché in questi libri, secondo loro, non se ne parlava e perciò erano in contrasto con i farisei, i quali sostenevano la dottrina della risurrezione (questo contrasto è testimoniato anche in At 23,6-10 nella difesa che l’apostolo Paolo fa di se stesso davanti al Sinedrio, dove proprio a causa della fede nella risurrezione gli esponenti delle due correnti si scontrano). E pur di screditare i farisei, i sadducei non esitano a cadere nel grottesco, presentando a Gesù il caso limite della donna che ha avuto sette mariti, a motivo della loro morte uno dopo l’altro (caso che rispecchia il dramma di Sara di cui si accenna nel libro di Tobia [3,8]). In verità, la legge mosaica prevedeva il caso di un marito che, alla morte, lasciava la moglie senza figli, nel qual caso il fratello del marito (il cognato) doveva sposarne la moglie e così assicurare una discendenza.
Era la legge del levirato (dal latino levìr, “cognato”), formulata in Dt 25,5: “Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà con un estraneo. Suo cognato si unirà a lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere di cognato”. “Alla risurrezione, quando risorgeranno, di quale di loro la donna sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”: questa è la domanda che ironicamente i sadducei pongono a Gesù (ironia che traspare dalla voluta ripetizione del riferimento alla risurrezione). La risposta del “Maestro veritiero” (come era stato chiamato Gesù nella seconda controversia: Mc 12,14) spiazza gli interlocutori mediante due argomentazioni. Con la prima Gesù afferma la completa trasformazione che del corpo dell’uomo (o meglio della sua corporeità) avverrà nella risurrezione: la partecipazione dell’uomo alla vita divina sarà tale che il matrimonio avrà esaurito la sua funzione, che è caratteristica del tempo presente e del mondo presente: “Quando risorgeranno dai morti, infatti, non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli”.
Con il riferimento agli angeli, che vivono già nel mondo trasformato della risurrezione, Gesù intende anche affermare la loro esistenza, negata dai sadducei. Con la seconda argomentazione Gesù corregge la lettura incompleta (ma anche errata) che delle Scritture fanno i sadducei (“Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio?”). Scegliendo il celebre passo della rivelazione del nome di Dio (=Jhwh) a Mosè presso il roveto ardente (cfr. Es 3,13-15), Gesù spiega ai suoi interlocutori che Dio si presenta a Mosè come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6). Questi patriarchi erano già morti all’epoca di Mosè, ma nella fede biblica essi sono vivi in Dio, perché la “potenza di Dio” li ha resi partecipi della risurrezione dai morti (“[Dio] non è Dio dei morti, ma dei viventi!”). Ai sadducei, che non hanno compreso questa verità su Dio e sull’uomo, Gesù non può che rispondere: “Voi siete in grave errore”. E il caso grottesco che essi hanno sottoposto a Gesù per intrappolarlo, intrappola loro stessi.

Qual è il primo comandamento? (Mc 12,28-34)

A differenza degli evangelisti Matteo (22,35) e Luca (10,25), nel vangelo secondo Marco la questione del comandamento principale non viene posta a Gesù “per metterlo alla prova”, ma nasce dal desiderio del suo interlocutore di vivere in pienezza la legge di Dio, come è proposta nel libro del Deuteronomio. Lo scriba era colui che si dedicava totalmente allo studio della legge di Mosè e alla sua interpretazione. Di lui intesse un intenso elogio il libro del Siracide (cfr. Sir 39,1-11: un testo da non trascurare). La distinzione tra comandamenti “grandi” e “piccoli” era divenuta fonte di incertezza per il credente ebreo. Lungo il tempo la legge mosaica era stata infatti suddivisa in 613 comandamenti, di cui 365 precetti negativi e 248 precetti positivi (corrispondenti i primi ai giorni dell’anno, i secondi al numero delle membra del corpo, come calcolava l’antica medicina). Da qui sorge la domanda a Gesù, per sapere a quale di questi comandamenti dare il primato. Nella prassi religiosa del popolo biblico l’uomo (maschio) era tenuto all’osservanza sia dei precetti negativi sia di quelli positivi.
La donna invece era tenuta all’osservanza dei soli precetti negativi. Inoltre l’insieme dei 613 comandamenti era stato sintetizzato nella parola ebraica mnemotecnica taryàg: infatti assommando il valore numerico delle singole consonanti che compongono questo termine (in ebraico alle consonanti corrisponde anche un valore numerico) si ha il totale di 613: t (ebraico tau) = 400; r (ebraico resh) = 200; y (ebraico yod) = 10; g (ebraico ghimel) = 3. La risposta di Gesù da una parte ripropone la fede nel Dio biblico: viene infatti riconfermata la stessa professione di fede presente in Dt 6,4-5, conosciuta come Shemà Israèl, “Ascolta, Israele” (che anche l’evangelista Marco riporta). Questa contiene il primo e principale comandamento. Dall’altra accentua il primato di Dio, come fondamento di tutto l’essere e l’agire dell’uomo (racchiusi semiticamente nel trinomio “cuore-menteforza”: “Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”). L’agire dell’uomo viene poi orientato da Gesù alla luce del “secondo” comandamento, che egli pone in intima relazione con il primo: “Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Nella sua risposta Gesù rivaluta anche il significato originario del termine “prossimo”, verso il quale già l’Antico Testamento inculcava l’amore e il rispetto (Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”).
Originariamente, infatti, questo termine si riferiva anche agli stranieri dimoranti in Palestina. Solo in seguito il Giudaismo, attenendosi scrupolosamente all’obbligo della segregazione dagli altri popoli, aveva limitato il prossimo al solo correligionario. Gesù supera questo limite e fa di ogni uomo indistintamente un fratello, un prossimo da amare. Con l’espressione: “vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”, riferita all’amore a Dio e al prossimo, Gesù propone l’amore come perfezione e pienezza di tutta la legge. Neppure al culto compete un simile primato né nell’insegnamento di Gesù né in quello dei profeti prima di lui (cfr. Is 58,1-14; Am 5,21-27). È un richiamo forte alla nostra coerenza tra fede e vita, tra liturgia e carità, tra il culto e l’impegno nella vita di ogni giorno. L’espressione: “Non sei lontano dal regno di Dio” lascia trapelare il giudizio più sereno con cui Marco – a differenza di Matteo – accosta il Giudaismo del tempo di Gesù. Anche i Giudei avevano la possibilità di accogliere la parola di Gesù e di far parte del Regno da lui annunciato. Se poi riprendiamo in mano il testo del Siracide citato sopra, scopriremo l’animo profondo del credente giudeo, rispecchiato nell’amore che ha lo scriba verso Dio e la sua Parola. Gesù ha dimostrato la sua familiarità con questo testo e con l’insieme della Legge e della Parola di Dio e lo scriba glielo riconosce: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità”. Dopo queste parole, che ci riportano all’inizio delle controversie con Gesù, appare in tutta la sua grandezza la figura di Gesù “Maestro veritiero” e viene meno, da parte dei suoi interlocutori, ogni altro tentativo di provocarlo (“Nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”).

Un duplice richiamo agli scribi (Mc 12,35-40) –

Prima parte

Il testo del libro del Siracide che abbiamo ricordato sopra (cfr. 39,1-11) loda la sapienza dello scriba e il suo amore verso la Parola di Dio, di cui egli è il conoscitore e l’interprete. Tale era lo scriba che aveva interpellato Gesù. Il primo richiamo che egli rivolge agli scribi riguarda la loro interpretazione del Salmo 110 (“Disse il Signore al mio Signore…”), nel quale essi interpretavano la figura del Messia come figlio di Davide, con tratti spiccatamente nazionalistici. Ma Gesù corregge questa loro interpretazione, spiegando che è Davide stesso a riferirsi profeticamente a un personaggio diverso da sé (e che egli chiama “Signore”) e al cui orizzonte si profilava già la vera identità del Messia, che è Figlio di Dio e non figlio di Davide (“Davide stesso lo chiama Signore: da dove risulta che è suo figlio?”).

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1) Metti a confronto il testo della controversia sulla liceità del tributo da pagare a Cesare (Mc 12,13-17) con quanto l’apostolo Paolo presenta, al riguardo, in Rm 13,1-7. Come puoi applicare tutto ciò alla società del nostro tempo? Come puoi educare, da parte tua, a un’etica della legalità e della giustizia, in un mondo che spesso calpesta questi valori?

2) Metti anche a confronto il testo della domanda fatta a Gesù su quale sia il primo comandamento (Mc 12,28-34) con il testo di Paolo in Rm 13,8-10.

3) Leggi il testo di Sir 39,1-11 e confrontalo con quanto trovi nei Vangeli sulla figura degli scribi.

Don Primo Gironi, ssp