![]() |
IL VANGELO SECONDO MARCO
(22)
Segni e parole di Gesù nel Tempio di Gerusalemme (Mc 11,12-25) Quanto ora viene narrato da Marco appare subito in contrasto con le aspettative messianiche che aveva suscitato l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme. Le folle infatti intendevano la persona e l’opera del Messia in senso nazionalistico e rivoluzionario. Proprio questo ingresso, che Gesù ha vissuto volutamente in una cornice di umiltà, nella consapevolezza del rifiuto da parte delle autorità religiose e dei capi del popolo, dà inizio alla rivelazione che egli fa attraverso segni e parole, al cui orizzonte si profila già la fine di Gerusalemme e del Tempio con il suo culto (e quindi di tutto un mondo che era stato fino allora l’ambiente vitale del popolo biblico) e la nuova realtà della Croce e della Pasqua. La maledizione dell’albero di fichi e la cacciata dei venditori dal Tempio (Mc 11,12-19) I due segni che Gesù compie (la maledizione dell’albero di fichi che viene fatto seccare [11,12- 14.20-21] e la cacciata dei venditori dal Tempio [11,15-19]) vanno letti e compresi insieme. È lo stesso evangelista a suggerirci questa lettura, ricorrendo alla tecnica dell’incastro (cioè un segno è inserito nell’altro, come avevamo notato già con il doppio miracolo della guarigione della donna con le perdite di sangue e della guarigione della figlia di Giàiro: Mc 5,21-43). L’albero di fichi sul quale Gesù cerca inutilmente dei frutti diventa il simbolo del culto infruttuoso del Tempio, che era andato man mano degradando e necessitava di una purificazione e di un totale rinnovamento interiore e spirituale. La presenza di venditori di colombe e di animali, di cambiavalute e di altri elementi incompatibili con il culto reso a Dio, conduce Gesù a compiere il segno della cacciata di tutti costoro dal Tempio. Questo segno è accompagnato (e spiegato) dalle parole di condanna che già i profeti avevano pronunciato per ricondurre Israele alla purezza del culto. Dal libro dei Profeti l’evangelista Marco riporta qui due testi, che illuminano il gesto di Gesù. Il primo è Is 56,7: “Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni?”. Il secondo testo è del profeta Geremia (“voi invece ne avete fatto un covo di ladri”: Ger 7,11) e Gesù lo utilizza per condannare il vergognoso spettacolo offerto dai commercianti nei locali del Tempio. In verità la presenza nel Tempio di queste categorie di persone si era resa |
![]() |
necessaria per diversi motivi: la necessità di cambiare la moneta coniata nei territori pagani da cui giungevano i pellegrini (e ritenuta “impura”) con moneta coniata in Israele (la sola ammessa nel culto del Tempio) e la possibilità di offrire con facilità i sacrifici di animali (come le colombe). Ma forse tutto ciò aveva avuto, nel tempo, il sopravvento sulla qualità e sulla purezza del culto, sulla sua spiritualità e sulla sua interiorità (è il rischio anche dei nostri luoghi di culto più frequentati, come i santuari). Nel racconto che Marco fa del segno riguardante l’albero di fichi, troviamo un inciso assai significativo per la comprensione del significato del gesto che Gesù compie: “Non era infatti la stagione dei fichi” (11,13). La “stagione” è resa con il greco kairòs, un termine che indica il tempo preciso, il momento da non lasciarsi sfuggire, l’attimo da afferrare, perché sarà decisivo per tutta la vita. Gerusalemme e il suo Tempio (in realtà i capi del popolo e le autorità religiose) non hanno saputo/voluto cogliere il kairòs offerto da Gesù come inviato di Dio e come Messia donatore della salvezza, e lo hanno rifiutato. Si sono “seccati”. Come è avvenuto per l’albero di fichi: “Maestro, guarda: l’albero di fichi che hai maledetto è seccato” (11,22). Questo non significa che la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio deve essere considerata una vendetta divina o una maledizione da parte di Gesù. No. Gesù, infatti, con questi segni si proponeva di condurre i capi del popolo e le autorità religiose (che avrebbero deciso la sua morte) alla conversione e all’apertura al suo messaggio di salvezza, altrimenti avrebbero causato la rovina del loro popolo (rovina che avverrà nel 70 d.C. con la caduta di Gerusalemme e del Tempio da parte degli eserciti romani). Un popolo che, come attesta Marco, “era invece stupito dell’insegnamento di Gesù” ed era aperto al suo Vangelo (11,18). La fede e la preghiera (Mc 11,22-26) L’albero di fichi che viene seccato e i venditori scacciati dal Tempio sono due segni che solo Gesù può compiere, perché è lui il rivelatore del vero Tempio e del vero culto spirituale e interiore che in esso si compie. Con questi segni Gesù vuole indicare ai discepoli (che lui ha voluto come testimoni perché li dovranno far conoscere) che solamente la fede può riportare tutto all’ordine voluto da Dio. Anch’essi dovranno riportare questo ordine nel mondo, dove il primato va sempre all’interiorità del culto e non arenarsi alla sola esteriorità o alla sola ritualità. La difficoltà di questo compito (ma anche oggi è difficile annunciare il primato dell’interiorità) non deve spaventare, perché questa è l’opera voluta da Dio e questa è l’opera che si compie solo con la fede, secondo le paradossali parole di Gesù: «Abbiate fede in Dio! In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: “Lèvati e gèttati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà» (11,22-23). Questa fede va alimentata con la preghiera: il discepolo e tutti noi scopriamo nella relazione fiduciosa e filiale di Gesù con il Padre il modello di questa preghiera: “Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (11,24). Le controversie attorno a Gesù in Gerusalemme (Mc 11,27-33 e 12,13-37) Come era avvenuto per il ministero in Galilea, dove erano sorte cinque controversie tra Gesù e i suoi oppositori (le abbiamo presentate nel commento a Mc 2,1-3,6), così avviene ora per il ministero in Gerusalemme, esso pure caratterizzato da cinque controversie, racchiuse in Mc 11,27-33 e 12,13-37 (con l’inserzione della parabola dei vignaioli omicidi [12,1-12], da interpretare come sviluppo della prima controversia, quella sull’autorità di Gesù [11,27-33]). La prima controversia: l’autorità di Gesù (Mc 11,27-33) È una domanda ben circostanziata posta a Gesù ad aprire questa controversia: “Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità per farle?”. Più che l’ingresso trionfale in Gerusalemme è la cacciata dei venditori dal Tempio a suscitare questa domanda da parte della classe dirigente del Tempio, composta “dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani” (responsabili anche del culto e della sua organizzazione). Gesù non dà una risposta diretta, perché ha la consapevolezza che la sua exousìa (in greco, “autorità”) si rivelerà in tutta la sua pienezza solo sulla Croce, dove apparirà la sua identità di “Figlio di Dio”, e nella Pasqua, quando apparirà la sua gloria di Kyrios (in greco, “Signore”, che è il titolo pasquale proprio di Gesù risorto). Sulla Croce e nella Pasqua apparirà quella exousìa/autorità che ora i suoi oppositori non vogliono attribuire “al cielo”, cioè a Dio, Ricorrendo alla figura e all’attività di Giovanni Battista (“Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi”), Gesù specchia la propria autorità e il proprio destino con l’autorità e il destino del Precursore, che il popolo associava ai grandi profeti e ne riconosceva l’autorità “dal cielo” (cioè l’origine in Dio) e non “dagli uomini” (come conferma il dilemma che imbarazza gli oppositori di Gesù e che non permette loro di rispondere: «Se diciamo: “Dal cielo”, [Gesù] risponderà: “Perché allora non gli avete creduto?”. Diciamo dunque: “Dagli uomini?”. Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un profeta»). Come non è stata riconosciuta la vera origine dell’autorità del Battista, al punto che fu condannato a morte (cfr. Mc 6,17-29), così è per Gesù, la cui autorità non è riconosciuta proveniente “da Dio” e la cui condanna a morte è ormai imminente (come viene detto nella parabola dei vignaioli omicidi, che subito segue). La parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-2) Se a prima vista questa parabola può sembrare un’inserzione nel contesto delle controversie su Gesù in Gerusalemme, a una lettura più attenta essa si rivela come la risposta sulla sua identità e sull’origine della sua autorità. Sullo sfondo di questa parabola è già visibile il processo (con la condanna a morte) cui verrà sottoposto Gesù, come era avvenuto per i “servi” (cioè i profeti) inviati da Dio lungo la storia di Israele, suo popolo. La parabola può essere così considerata una sintesi della storia della salvezza narrata dalla Bibbia. La vigna è, nella Bibbia, l’immagine del popolo di Dio: le prime parole con cui si apre la parabola descrivono l’opera del vignaiolo/contadino ispirandosi al capitolo 5° del libro del profeta Isaia, dove è presentata la minuziosa cura che Dio ha per la sua vigna/Israele (“Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre”, leggiamo in Mc 12,1; mentre in Is 5,1-2 leggiamo: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino”). Doveva perciò essere grande l’attesa di buoni frutti che il padrone (Dio) nutriva per questa vigna (Israele). E Gesù stesso si aspettava tanto dall’Israele/vigna cui annunciava la novità del Vangelo. Il susseguirsi dell’invio dei “servi” da parte del padrone della vigna, che li incaricava di ritirare i frutti dai contadini cui l’aveva affittata (“la diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano”) ricorda l’invio dei “profeti”, che Dio aveva suscitato per il suo popolo. Ma anche il loro maltrattamento e la loro uccisione ricordano il rifiuto e l’opposizione che il popolo di Israele ha manifestato nei confronti dei profeti e di Dio stesso, nel cui nome essi parlavano. L’invio del figlio («Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”»), se da una parte esprime il tentativo estremo da parte del padrone della vigna per convincere i vignaioli, dall’altra diventa l’immagine del Figlio (Gesù) che il Padre invia per la conversione e la salvezza della vigna/umanità. Egli è il “figlio amato”, un’espressione che ha le radici nella Bibbia e che ricorda Isacco (il “figlio amato” di Abramo: Gen 22,2), Giuseppe (il “figlio amato” da Giacobbe “più di tutti i suoi figli”: Gen 37,2) e Gesù stesso (che Marco presenta come il “Figlio amato” dal Padre, nella teofania del Battesimo [1,11] e della Trasfigurazione [9,7]). Nella drammatica fine del figlio (“Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna”) è già annunciata la fine di Gesù. Matteo e Luca, che hanno tramandato questa stessa parabola, sono più espliciti nel confronto tra la fine del figlio del padrone della vigna e la morte di Gesù: Gesù verrà condotto fuori della città di Gerusalemme e poi ucciso. Così questi due evangelisti “correggono” il testo di Marco, dicendo che il figlio fu prima gettato fuori della vigna e poi ucciso (Mt 21,39; Lc 20,15). La conclusione della parabola contiene un severo ammonimento rivolto agli oppositori di Gesù. La condanna pronunciata sul loro rifiuto nei confronti di Gesù (“farà morire quei contadini/ vignaioli e darà la vigna ad altri”) vuole indicare che essi non hanno saputo fruttificare il regno (simboleggiato nella vigna) loro affidato da Dio. E Gesù, rifiutato e “scartato”, si ergerà dalla Croce e dalla Pasqua come “pietra d’angolo”, quella indispensabile per la costruzione del nuovo Tempio con un nuovo culto, di cui Gesù aveva parlato all’inizio del suo insegnamento in Gerusalemme e nel Tempio, compiendo i due segni della maledizione dell’albero di fichi e della cacciata dei venditori dal Tempio. La citazione del Salmo 118 (“la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo”) inserisce l’opera di Gesù nella storia della salvezza, guidata da Dio e non dai criteri degli uomini (uno dei quali è proprio lo “scarto”). PER LA RIFLESSIONE PERSONALE: 1. L’albero di fichi seccato da Gesù per la sua infruttuosità può essere un segno anche per la mia infruttuosità spirituale, per l’infruttuosità del mio gruppo, della mia parrocchia, del mio Istituto. Ho io una responsabilità in tutto questo? Merito anch’io l’intervento operato da Gesù nei confronti del culto infruttuoso del Tempio di Gerusalemme, di cui l’albero di fichi è segno? 2. Il segno della cacciata dei venditori dal Tempio può farmi riflettere sul mio rapporto con il culto, la preghiera, la liturgia del nuovo Tempio, che è oggi la Chiesa di Gesù. La riforma liturgica del Concilio ha elevato la mia partecipazione, che la Costituzione sulla sacra Liturgia (n. 14) definisce “piena, consapevole, attiva [fruttuosa]”? Oppure mi fermo più all’esteriorità, alla gestualità dei riti, all’apparato esterno delle feste, senza entrare nel cuore della celebrazione, nel cuore della preghiera? 3. Sto facendo fruttificare il Regno in me, come mi chiede il “padrone della vigna”? Cioè, sto facendo fruttificare la fede, il battesimo, la consacrazione, il carisma del mio Istituto, il dono del Vangelo e dell’appartenenza alla mia comunità di fede? Don Primo Gironi, ssp |