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IL VANGELO SECONDO MARCO
(24)

 

Un duplice richiamo agli scribi (Mc 12,35-40) – Seconda parte

Il secondo richiamo che Gesù rivolge agli scribi si può considerare da una parte come il richiamo al ritorno alle origini della missione dello scriba (come viene presentata nel testo di Sir 39,1-11, che già conosciamo), dall’altra come la proposta di Gesù ad accogliere le esigenze profonde e i criteri radicali di umiltà e di servizio che comporta la sua sequela (cui si contrappone la ricerca dei “primi seggi nelle sinagoghe” e dei “primi posti nei banchetti” da parte di alcuni scribi). Infatti da questa sequela può essere formato al discepolato anche lo scriba (così da diventare, come leggiamo in Mt 13,52, “discepolo del regno dei cieli”). Ma, a differenza di Matteo, che nel lungo capitolo 23 del suo Vangelo ha una dura requisitoria contro gli scribi e i farisei, Marco ha, nel proporre il richiamo di Gesù, un tono più moderato e un contenuto molto più breve. Probabilmente l’epoca di Matteo avvertiva già il contrasto che purtroppo ha segnato (e in seguito accompagnato) i rapporti tra la comunità dei discepoli di Gesù e i giudei, tra la Sinagoga e la Chiesa. Il richiamo di Gesù agli scribi è un ammonimento a non seguire più una religiosità solo esteriore (“pregano a lungo per farsi vedere”), incapace di cogliere il messaggio del Regno, che si rivolge soprattutto all’interiorità dell’uomo (il “cuore”, nel linguaggio biblico). Le “lunghe vesti” alludono all’ampio scialle – chiamato in ebraico tallit – che gli ebrei indossano prima della preghiera del sabato. Probabilmente gli scribi lo avevano reso molto sontuoso e abbellito. “Divorare le case delle vedove” è un’espressione che rievoca le forti parole dei profeti in difesa di questa categoria (Is 1,17; Ger 7,6-7; vedi anche Es 22,21-22). Questa espressione sembra alludere sia allo sfruttamento dell’ospitalità delle vedove da parte degli scribi, sia alla loro esosità per le consulenze prestate. Gli scribi, infatti, erano esperti di giurisprudenza, curavano le pratiche testamentarie e tutto ciò che atteneva alla sfera giuridica. Probabilmente è questo schiaffo dato a una categoria così debole e indifesa come quella cui appartiene la vedova (così come quella del povero, dell’orfano e dello straniero) a suscitare l’indignazione e la condanna di Gesù: “Essi riceveranno una condanna più severa”.

L’offerta della vedova nel Tempio (Mc 12,41-44)

È il termine “vedova” a collegare quanto Gesù ha detto agli scribi con quanto ora viene detto del gesto esemplare della vedova che offre le sue due monetine (le uniche che possiede) nel tesoro del Tempio. Il “tesoro” era l’ambiente situato in uno dei cortili del Tempio di Gerusalemme, dove potevano accedere anche le donne. Al suo interno si trovavano tredici cassette a forma di imbuto per le offerte (simili a grandi trombe capovolte, che ricordano l’esortazione di Gesù: “Quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te”; Mt 6,2). Un sacerdote era preposto a ricevere le offerte e a proclamare ad alta voce la cifra che veniva versata (la legge prevedeva la raccolta di diverse offerte in denaro). Le monete offerte venivano messe in appositi contenitori, che un incaricato svuotava con uno scroscio rumoroso nelle cassette del tesoro del Tempio (il rumore delle monete era forte perché, annota Marco, “tanti ricchi ne gettavano molte”). Chi poteva avvertire il tintinnio delle due monetine (impercettibile tra tanto rumore), originato dal gesto della vedova, se non Gesù, il Maestro che ne coglie l’esemplarità per se stesso e per i discepoli che ha formato “lungo la strada” e ora saranno testimoni del compimento della volontà del Padre con l’offerta totale del loro Maestro sulla Croce? Ma entriamo più profondamente nel significato di questo episodio che conclude il ministero di annuncio di Gesù e nello stesso tempo conclude l’iter formativo dei suoi discepoli. Innanzitutto Gesù appare come “il discepolo” della donna che offre la sua esemplarità di “povera” e di “vedova” (un’esemplarità che lo riporta indietro nel tempo all’esemplarità della madre Maria).
Il verbo “stare seduto” (“[Gesù] seduto di fronte al tesoro”) indica, nella tradizione religiosa del popolo biblico, il discepolo. Gesù è il discepolo che si mette ai piedi di questa donna che, con il suo gesto, gli conferma il suo insegnamento sulla povertà di spirito (la donna è “povera”, addirittura una “mendicante”, secondo il significato del termine greco ptochòs qui usato) e il suo insegnamento sull’amore ai poveri, agli ultimi e agli emarginati (come erano le donne e le vedove al tempo di Gesù). Nella povera vedova che dona “tutto quanto aveva per vivere” (ma il testo greco dice molto di più: “tutta la sua vita [òlon ton bìon autès]”), Gesù vede il modello del dono di tutta la propria vita di discepolo obbediente al Padre, come avverrà sulla Croce. Ma Gesù rimane sempre il Maestro. Allora, svestitosi della figura del discepolo, riprende la sua autorità di Maestro, per portare a termine la formazione dei discepoli. La sua autorità si esprime mediante il verbo “chiamare a sé” (in greco, proskalèomai), che nel vangelo secondo Marco è il verbo della chiamata, con cui il maestro fa entrare nella sfera della propria vita i discepoli per formarli (“chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro…”; cfr. anche Mc 3,13; 6,7). Come pure si esprime mediante la formula che, nei Vangeli, è propria del Maestro che forma i discepoli nella verità e nell’autenticità (è la formula: “In verità, io vi dico [in greco, Amèn lègo umìn]”).
E la verità e l’autenticità del suo insegnamento di “maestro veritiero” (precedentemente riconosciute anche dai suoi oppositori, come abbiamo notato nel commentare le controversie su Gesù in Gerusalemme: cfr. Mc 12,14) vengono ora confermate dal gesto della povera vedova: “questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri”. Davanti a questo gesto Gesù conclude la sua opera formatrice nei confronti dei discepoli: l’annuncio del Regno ha fatto breccia (e farà breccia) soprattutto nei più poveri e negli ultimi, i quali sono capaci di donare tutto a Dio e di affidarsi totalmente a lui. Gli altri, quelli che Gesù lungo il suo ministero aveva chiamato “i primi” (Mt 19,30; Mc 10,31; Lc 13,30), si sono limitati a offrire solo “parte del loro superfluo”. Dal profondo della sua povertà, questa vedova diventa con il suo gesto il modello del discepolo, che lascia tutto per affidarsi solamente a Dio. Da questo gesto povero e umile della vedova, che solo gli “ultimi” sanno fare, traspare un messaggio di speranza che rincuora anche Gesù, ormai prossimo a dare tutto se stesso al Padre, affidandosi a lui sulla Croce.

Il discorso escatologico (Mc 13,1-37)

Quello che ora affrontiamo nella nostra lettura del Vangelo secondo Marco è un lungo discorso che Gesù fa ai discepoli ed è conosciuto come il discorso escatologico, cioè riguardante le “ultime realtà” o gli “ultimi avvenimenti” (dal greco èschaton, “ultimo”). È un discorso che ci è stato trasmesso anche dagli evangelisti Matteo (24,1-51) e Luca (21,5- 38) e che noi seguiamo senza entrare nelle molte questioni che riguardano la sua origine, la sua composizione e la sua trasmissione. Nei 37 versetti che racchiudono le parole di Gesù vediamo intrecciarsi da una parte il riferimento alla caduta di Gerusalemme e del suo Tempio, che avverrà nel 70 d.C. sotto i colpi dell’esercito romano (vv. 5-23), dall’altra il riferimento alla fine del tempo e del mondo con la venuta definitiva del Signore, chiamato con il titolo di “Figlio dell’uomo” (vv. 24-37).

“Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!” (Mc 13,1-4)

Il discorso prende l’avvio dalle parole di meraviglia rivolte a Gesù da uno dei discepoli, stupito dallo splendore e dalla grandiosità delle costruzioni che formavano il complesso del Tempio di Gerusalemme (all’epoca si stavano concludendo i restauri iniziati da Erode il Grande nel 20 a.C. circa). La risposta che Gesù dà si ispira ad alcuni oracoli profetici (come Ger 26,18; Mic 3,12) che annunciavano una distruzione totale “pietra su pietra”: “Vedi queste costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”. Ma poi diventa più articolata, allorché i discepoli chiedono a Gesù quando avverrà tutto ciò e quale sarà il segno che indicherà la distruzione annunciata dal Maestro. Marco sottolinea qui la parola che lungo tutto il suo Vangelo definiva Gesù come il Maestro che forma i discepoli soprattutto nei momenti più intimi, offrendo loro una rivelazione particolare che è quella dell’approfondimento delle Scritture e del mistero della sua Persona. È la parola “in disparte” (“Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte”). Gesù offre la sua rivelazione/ formazione ai discepoli “seduto sul monte degli Ulivi” (atteggiamento questo che indica la sua funzione di maestro). Questo perché egli ha la consapevolezza che ora si compirà il severo oracolo di distruzione contro Gerusalemme e i suoi abitanti, che Dio ha pronunciato simbolicamente sul monte degli Ulivi, come leggiamo in Zac 14,4-5: “In quei giorni i suoi [di Dio] piedi si poseranno sul monte degli Ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme e si fenderà in due… Allora voi fuggirete attraverso la valle tra i monti… fuggirete come quando fuggiste durante il terremoto, al tempo di Ozìa, re di Giuda” (testo da confrontare con Mc 13,14-23). Solo “in privato” può emergere il senso profondo di questo oracolo, che abbraccia pure l’evento della passione e morte di Gesù e la fuga dei discepoli, che lo abbandoneranno.

La distruzione di Gerusalemme (Mc 13,5-23)

La rivelazione offerta da Gesù ai discepoli prospetta due momenti particolari. Il primo è quello caratterizzato dalla distruzione di Gerusalemme (vv. 5-23) e il secondo è quello caratterizzato dall’attesa della fine dei tempi e dalla venuta gloriosa del Signore (vv. 24-37). La distruzione di Gerusalemme sarà preceduta dalla presenza di falsi messia e profeti: il discepolo dovrà avere lo sguardo fisso unicamente sul vero Messia e Profeta Gesù, il Maestro che lo ha chiamato a “stare con lui”. Sarà preceduta anche da guerre, terremoti, carestie, sollevazioni di popoli e di nazioni: il discepolo deve considerare tutto ciò come la fine di un mondo dominato dal male e dal peccato, nel quale è chiamato ad annunciare il Vangelo del Regno. Infine il discepolo sperimenterà la persecuzione, la condanna presso i tribunali, l’odio di molti e persino lacerazioni nella famiglia (“il fratello darà a morte il fratello, il padre il figlio…”). Egli però non deve temere, perché lo Spirito Santo è nel suo cuore e sulle sue labbra per suggerirgli parole di difesa e di lode a Dio. Dal libro del profeta Daniele (9,27) Gesù evoca un’espressione misteriosa (“l’abominio della desolazione”), per indicare che il Tempio “sarà profanato” (forse con l’installazione di una divinità pagana, forse con l’ingresso delle truppe romane). A questa “profanazione” seguirà la distruzione. Grande sarà la tribolazione e grande sarà la sofferenza che si ripercuoteranno soprattutto sui più deboli e indifesi (come le donne incinte e quelle che allattano, perché ai figli offriranno un futuro incerto e tragico). Ma in questo scenario di distruzione e di sofferenza, ecco il messaggio di speranza di Gesù: nonostante l’apparente prevalere del bene sul male, la storia è sempre guidata da Dio e i suoi eletti (come i giusti dell’Antico Testamento, cfr. Gen 18,17-33) intercedono per l’abbreviazione di questi tempi di tribolazione: “Ma grazie agli eletti che egli si è scelto, [Dio] ha abbreviato questi giorni”.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1) Confronta il testo di Mc 12,38-40 sugli scribi con quanto leggi in Mt 23,1-39. In questa tua lettura tieni presente da una parte il contrasto che sorse tra le prime comunità cristiane e le comunità giudaiche. Dall’altra rifletti sulle tristi (e a volte tragiche) conseguenze che ha provocato una lettura “alla lettera” (o anche fondamentalista) di questi testi. Ricorda sempre il testo di Sir 39,1-11.

2) Diventa anche tu “discepola” della vedova che dona tutto ciò che possiede al tesoro del Tempio. Solo Gesù ha potuto percepire il tintinnio delle sue due monetine. E solo Gesù può percepire ogni tuo piccolo sacrificio, ogni tuo piccolo progresso nel bene, ogni tua piccola vittoria sui difetti e sul peccato. Questo è il tuo “tintinnio” che solo Gesù percepisce tra il rumore e la dispersione delle nostre città.

3) La caduta di Gerusalemme e del suo Tempio è l’immagine della distruzione che opera in noi il peccato. Continua deve essere la nostra preghiera allo Spirito Santo, perché ci conservi suo Tempio e il peccato non distrugga questa stupenda costruzione che è ciascuno di noi (“Non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo”).

Don Primo Gironi, ssp

 

 

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