Ma è interessante rendersi conto di come Paolo concepisca il suo ministero apostolico; è la seconda volta che ritorna su questa idea e a poca distanza, poiché vi ha già accennato in questa lettera all’inizio del capitolo 12,1-2. In questi versetti Paolo esortava i cristiani a offrire “i loro corpi”, cioè le loro persone, la loro vita, a Dio in unione con Cristo come un “sacrificio santo”, un’offerta sacra, liturgica, proprio perché unita alla sua offerta d’amore totale fino alla morte di croce. La vita e la morte di Cristo infatti sono l’unica offerta pienamente gradita al Padre, cui Paolo esorta i cristiani a unire l’offerta di se stessi. E in questa stessa ottica egli vede anche la sua vita e la sua missione apostolica, anzi dobbiamo dire che questa partecipa ancor più dell’offerta di Gesù quanto più la vita di Paolo, e di ogni apostolo, è più vicina a quella di Cristo così da farne una cosa sola. Dio mi ha chiamato “perché fossi ministro cultuale di Gesù Cristo nei riguardi dei pagani e prestassi ilmio culto per quanto riguarda il vangelo di Dio” (15,16).
Come la vita di Paolo, anche quella di ogni paolino e paolina – consacrati a Cristo in risposta a una particolare vocazione apostolica – è e deve essere una continua liturgia, un continuo servizio a Dio, proprio per l’offerta che si rinnova in ogni impegno della vita quotidiana: Paolo ci insegna e ci ricorda che siamo sempre in liturgia. Egli si sente il ministro di questa liturgia che vivono i suoi fedeli e ora è felice di compiere questo ministero anche a vantaggio dei cristiani di Roma.
2) “Da Gerusalemme all’Illirico” (15,19-20). – Con questa espressione Paolo traccia una panoramica geografica del suo apostolato, come missionario di Gesù Cristo, illustrata dal libro degli Atti, specie dal cap. 13 in avanti, e dalle lettere inviate alle comunità. La parola Illirico indica la regione dell’Illiria, una provincia romana situata nella regione balcanica (nella ex-Jugoslavia), a nord della Grecia e della Macedonia.
Scrivendo ai fedeli di Roma a Paolo sembrava quasi di invadere un campo altrui, come del resto si esprime egli stesso in 15,20, dove afferma di non avere lavorato in… terreni già coltivati da altri, ma di avere sempre scelto di annunciare il vangelo di Gesù in luoghi in cui esso non era ancora conosciuto. Perciò egli non ha evangelizzato tutto l’oriente, da Gerusalemme all’Illirico, ma ha operato in questa area, scegliendo zone o centri in cui non era ancora stato annunciato il suo vangelo di Gesù. Paolo sceglieva di solito i centri maggiori per la prima evangelizzazione, anche perché da tali centri il vangelo si sarebbe più facilmente diffuso nei villaggi e borgate dei dintorni.
Alcuni studiosi hanno tentato di calcolare, basandosi sugli Atti e le Lettere, quanti km può avere percorso Paolo nei suoi viaggi apostolici per terra e per mare, e sono arrivati a circa 17.000 km! E Paolo non aveva certo a disposizione cavalli e carrozze; qualche utilità poteva offrirgli la rete stradale costruita dai Romani, dove c’era, e la possibilità di viaggi nel Mediterraneo nei mesi da marzo a ottobre (d’inverno erano bloccati i viaggi in mare perché pericolosi). Egli ricorda i suoi viaggi apostolici con le fatiche e i pericoli che gli costavano (cfr. 2Cor 11,26-27): davvero lo Spirito che lo animava non gli dava tregua. Con una battuta potremmo dire che Paolo si fermava solo quando lo mettevano in prigione!
Ora Paolo scrive questa lettera da Corinto: guardando indietro gli sembra di aver annunciato il vangelo in Oriente, fondando un certo numero di comunità cristiane in varie città; ora sta già pensando a una prossima “avventura apostolica” di grandi dimensioni: sta pensando all’Occidente da evangelizzare che, per il mondo allora conosciuto, si identificava con Spagna, dove Roma aveva già messo piede estesamente. Per andare in Spagna, già all’inizio della lettera (1,10-15), Paolo diceva che sarebbe passato da Roma, fermandosi i quella comunità per scambiarsi i doni spirituali che il Signore aveva loro fatto e che devono consolare e rafforzare nella fede tutti i credenti in Cristo. Ora, verso la fine della lettera, dice che verrà tra loro con la pienezza delle benedizione di Cristo (15,29) e che si fermerà tra i fratelli di Roma, “per assaporare la loro presenza” (15,24). L'occasione tanto desiderata sembra vicina.
3) I timori di Paolo nel portare aiuti ai poveri di Gerusalemme (15,25-27.30-31). – E’ una situazione che ci lascia alquanto stupiti! Paolo ricorda, nella lettera ai Galati 2,9-10, che lui e Barnaba si erano trovati pienamente d’accordo con Pietro Giacomo e Giovanni – le “colonne” della comunità di Gerusalemme – per ciò che riguardava i campi di apostolato, e ricorda che Pietro e gli altri lo avevano pregato di pensare ai poveri di Gerusalemme, cosa che Paolo ha subito cercato di fare avviando nelle sue comunità una “colletta” a questo scopo (2Cor cc. 8-9, specie 9,1-5). Paolo quindi si è dato premura per organizzare questa raccolta così che non fosse una modesta elemosina, ma aiutasse in modo consistente i poveri della prima comunità cristiana. Ora Paolo si trova a Corinto, in attesa del tempo buono per poter andare via-mare in Palestina. Ma suscita qualche meraviglia, come dicevamo, il fatto che egli inviti e supplichi i fratelli di Roma a pregare – a “lottare”, dice lui, con la preghiera – affinché “il servizio che egli fa, risulti gradito ai santi”, cioè ai fratelli di Gerusalemme. Sembra temere che questo “servizio” possa essere respinto dai destinatari, pur provati dalla miseria!
Paolo sa che tra i “fratelli” di Gerusalemme, tra i cristiani di origine ebraica, c’è una corrente contraria al suo modo di essere missionario di Gesù: sono contrari a quello che noi diremmo il suo universalismo, per cui non esistono più persone, né popoli privilegiati, eletti, dinanzi a Dio; l’opera di salvezza compiuta da Cristo si estende a tutti gli uomini, senza differenze e privilegi: è unicamente la fede in Cristo e nella sua opera che porta la salvezza di Dio a tutti i popoli, che sono tutti chiamati, compreso Israele che resta il primo chiamato, a formare l’ immenso popolo di Dio. Paolo parla anche di “falsi fratelli”, tra gli ostacoli che incontra nel suo ministero (2 Cor 11,26), tra i quali c’erano anche costoro, forse anche in buona fede, che però non avevano ben compreso il valore della persona e dell’opera di Gesù. E se questa corrente avesse preso il sopravvento nella comunità, quei cristiani avrebbero potuto anche disprezzare l’opera e l’aiuto di Paolo e delle sue comunità, come cose provenienti da uno che sembrava “distruggere” in certo senso tutto il passato d’Israele come popolo eletto di Dio. Paolo invece – proprio con questa colletta – intendeva alimentare tra tutte le comunità il senso di appartenenza all’unica Chiesa e quasi evidenziare questa unità con lo scambio per cui da Gerusalemme erano partiti gli apostoli e i missionari che avevano portato nel mondo la verità e la salvezza per tutti, mentre ora i “gentili” in qualche modo ricambiavano offrendo ai fratelli d’Israele dei beni materiali di cui avevano bisogno, come dice Paolo chiaramente (15,25-27).
E questo scambio interessa particolarmente Paolo perché esso diventa segno di unità fra le comunità e quindi segno dell’unità della Chiesa che si sente come una famiglia in cui ci si aiuta e ci si sostiene gli uni gli altri. E Paolo teme che questo grande valore non venga compreso e accolto, e che la faziosità possa rovinare questa bella e significativa opera di carità, che Paolo chiama “servizio sacro” (15,28). 4) Tanti amici da ricordare (16,1-24). – Anche la quantità di fratelli che Paolo manda a salutare alla fine di questa lettera ai Romani può meravigliarci per il fatto che egli, come si diceva, non aveva fondato e non aveva neppure mai visitato la comunità di Roma. Ma forse proprio perché Paolo non conosceva direttamente la comunità manda i saluti a persone determinate che aveva avuto occasione di conoscere in altre comunità. Sorprende positivamente il fatto che tante persone siano rimaste amiche di Paolo, pur vivendo lontano e quindi con rare occasioni non solo di vedersi, ma anche di mandarsi un saluto (i cellulari non c’erano ancora!). Evidentemente Paolo era un tipo molto affabile che coltivava le amicizie. Noi conosciamo ben pochi dei personaggi qui nominati, ma leggiamo con piacere come Paolo ricordi con affetto tante persone che, non solo gli ricambiavano l’amicizia, ma che certamente sono state coinvolte da lui nel suo apostolato e gli hanno offerto preziosi aiuti, come sappiamo di coloro di cui abbiamo qualche notizia. Così sappiamo che Febe era “diaconessa” nella comunità di Cencre, uno dei due porti di Corinto, della cui assistenza anche Paolo ha beneficiato; probabilmente fu questa signora che portò ai cristiani di Roma la lettera di Paolo. Sono ben noti poi i coniugi Aquila e Priscilla, veri benefattori di Paolo: se ne parla in Atti 18,2.26; 1Cor 16,19, ma non sappiamo in quali circostanze abbiano rischiato la vita per Paolo; inoltre con la loro attività di costruttori e commercianti di tende hanno potuto aiutare altri cristiani e lo stesso Paolo, procurando loro del lavoro. Egli dice che tutte le chiese dei gentili (cioè dei pagani) sono riconoscenti a loro.
Epeneto è detto “primizia dell’Asia” nel senso che fu tra i primi di quella provincia, che faceva capo a Efeso, a convertirsi a Cristo. Andronico e Giunia erano di origine ebraica, forse imparentati con Paolo; si erano convertiti a Cristo prima di Paolo che li chiama “apostoli” nel senso generale di propagatori del vangelo e collaboratori degli apostoli. Nei vv. 16,8-15 vi sono tanti nomi di cui non sappiamo nulla, tutti cari a Paolo, uomini e donne, disponibili a servizi per la comunità.
Tra questa litania di nomi e di… complimenti, Paolo inserisce inaspettatamente nei vv. 17-18 un richiamo serio contro “falsi fratelli” che cercano di introdurre nelle comunità idee che non appartengono alla “dottrina già appresa” dai veri apostoli.
Seguono i saluti da parte di alcuni discepoli che erano con Paolo (vv. 19-23), tra cui il carissimo Timoteo e lo “scrivano” che ha scritto la lettera sotto la dettatura di Paolo, il quale non aveva molta dimestichezza con la scrittura (vedi quello che dice in Gal 6,11). E ora Paolo conclude la lunga lettera, quasi congedando i suoi ascoltatori col linguaggio liturgico della lode all’infinita bontà di Dio (16,25-27) che ci ha rivelato e donato in Cristo la verità e la grazia della salvezza, augurando ai suoi fedeli la perenne “obbedienza della fede” al vangelo: una parola che ricorre al principio della lettera (1,5) e qui alla fine (16,9), una parola viva e attuale anche per noi oggi e sempre.
Per la riflessione personale:
1) La vita come liturgia: coltivo ogni giorno il pensiero che la mia vita di cristiana, battezzata in Cristo, deve essere un continuo atto di culto al Padre?
2) Coltivo l’amicizia, soprattutto con le “consorelle” di gruppo e di istituto come la bellezza della carità, che dona serenità e gioia nell’incontro e nella comunicazione?
3) L’ “obbedienza della fede”, oltre che adesione alla verità rivelata, la sento anche come accoglienza piena di quanto il Signore dispone per me giorno per giorno?
D. Antonio Girlanda ssp |