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LA PRIMA LETTERA DI SAN GIOVANNI
(9)

 

1Gv 5: credere alla testimonianza dell’amore.

Il quinto capitolo della Prima Lettera di Giovanni appare davvero come la conclusione dell’intero scritto, non solo perché lo chiude materialmente, ma piuttosto perché ripresenta i temi affrontati nel corso dell’epistola, non più argomentandoli, ma facendone oggetto di affermazioni decise che il lettore dell’opera dovrebbe già essere motivato a condividere. Significativo a questo proposito è l’inizio del capitolo, che si apre, riaffermando la fede in Cristo come caratteristica dei figli di Dio e l’amore come conseguenza esistenziale di questa fede. Il v. 2 sembra operare un capovolgimento rispetto a quanto proclamato in 1Gv 4,20, dove il criterio per verificare l’amore per Dio che non si vede era manifestato dall’amore al fratello concreto. Qui invece si afferma che “da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti” (1Gv 5,2). In realtà non c’è contraddizione, ma le due affermazioni sono speculari e, se lette insieme, aprono un significato più ricco. Infatti l’amore al fratello è prova dell’amore di Dio perché esso non è dettato da sentimenti filantropici, o da una visione filosofica del mondo, ma dall’obbedienza al comandamento unico di Cristo che è diventato vita intima del cristiano, espressione del dinamismo esistenziale della figliolanza divina donata per grazia. Dunque solo chi ama Dio nella forma dell’obbedienza al comandamento (che è, lo ripetiamo ancora, espressione della sua vita di figlio nel Figlio), può amare il fratello come lo ha amato il Figlio Gesù, fino a dare la vita: quest’amore appartiene solo a chi è nato da Dio, a chi “conosce” il Dio-amore. Perciò l’inizio di questo capitolo conclusivo insiste molto sul legame tra fede ed amore, infatti non ci si può donare amore cristianamente – o più precisamente, “cristicamente” – senza la fede, e la fede autentica nella persona umana e divina del Cristo. Probabilmente in questo contesto bisogna cercare la soluzione al primo dei punti oscuri che il nostro capitolo ha offerto alla fatica interpretativa degli esegeti. “Questi (i.e. Gesù Cristo) è colui che è venuto con acqua e sangue: non con acqua soltanto, ma con l’acqua ed il sangue… poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo spirito1, l’acqua ed il sangue e questi tre sono concordi” (cfr. 1Gv 5,6-8). La menzione dell’acqua e del sangue sotto la penna di un autore giovanneo sembrerebbe spontaneamente riportarci alla morte di Gesù in croce, certificata agli occhi del mondo intero dalla

trafittura del costato, da cui sgorgano sangue ed acqua, ed a cui l’autore del Quarto Vangelo attribuisce grande importanza simbolica (cfr. Gv 19,34ss.). Tuttavia il riferimento diventa oscuro perché non si comprende bene il legame con lo “spirito”, e cosa qui voglia significare la parola “spirito”, e come queste tre realtà, acqua, sangue e spirito, rendano testimonianza. Presso i Padri della Chiesa è diffusa una interpretazione trinitaria, per cui “spirito” farebbe riferimento al Padre, di cui in Gv 4,24 è detto “Dio è spirito”, mentre l’acqua sarebbe da interpretare come lo Spirito Santo, paragonato ad essa in Gv 7,37ss., ed il sangue ovviamente rimanderebbe al Figlio incarnato e morto sulla croce; così la testimonianza sarebbe resa dalla Trinità stessa che abita nel cuore del credente. Sulla linea di una testimonianza interiore si muove anche chi vede nei tre elementi un riferimento sacramentale, per cui l’acqua alluderebbe al Battesimo, il sangue all’Eucarestia e lo Spirito, dunque inteso come Spirito Santo, alla Cresima; ci si domanda però perché mentre i primi due sacramenti sono indicati dall’elemento materiale, per l’altro non si parla di Crisma o di Unzione, vocabolo che pure è comparso sotto la penna del nostro Autore, ma direttamente della Persona Divina cui il sacramento della Cresima si appropria più specificamente. Gli interpreti moderni sottolineano la precisazione “è venuto… non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue”, e vi vedono ancora una polemica con i secessionisti: questi insisterebbero sul battesimo di Gesù al Giordano come momento dell’investitura messianica in cui lo Spirito scende su Gesù, ma l’Autore vuole riportarli a confessare il Cristo morto in croce e questa morte come il vero momento di salvezza. Lo Spirito, manifestatosi per Gesù nel battesimo nell’acqua, non è donato ai credenti se non per l’effusione del suo sangue sulla croce. Dunque il senso di questi riferimenti potrebbe essere che la missione di Gesù, proclamata sulle acque del Giordano, si compie come salvezza nel sangue sparso sulla croce, in virtù del quale è donato lo Spirito Santo.
Nella morte di Gesù è testimoniato l’amore di Dio per gli uomini, che è causa ed esempio dell’amore reciproco dei cristiani; lo Spirito donato e ricevuto testimonia questo amore nel cuore dei credenti, ma essi, spinti da questo Spirito, testimoniano a loro volta davanti al mondo quello stesso amore di Dio nella pratica di vita, quando, come il Figlio Gesù, versano il loro sangue, cioè tutto se stessi, per amore dei fratelli, in quanto rinati alla vita di figli dall’acqua battesimale. Infatti solo “chi ha il Figlio ha la vita” (1Gv 5,12), cioè la vita eterna, la vita del Dio-amore. Se questa interpretazione è esatta, allora essa ci potrebbe aiutare a sciogliere l’altro nodo enigmatico di questo capitolo. L’Autore infatti introduce una misteriosa differenza tra peccati, quelli che conducono alla morte e quelli che non vi conducono, e precisa che il peccato che conduce alla morte pone in una condizione assolutamente irreversibile tanto che è inutile, e non si deve pregare per coloro che lo commettono. Non pare di potersi ravvisare qui la dottrina riguardo al peccato mortale ed al peccato veniale, dottrina che si svilupperà solo molto più tardi; inoltre è da considerare che dal peccato mortale ci si può convertire e la Chiesa prega per il ravvedimento di chi compie tali peccati. Qualcuno ha pensato che il peccato imperdonabile fosse l’idolatria di ritorno; di fatto nella Chiesa antica ci furono voci che dichiaravano non potesse ottenere perdono chi, dopo il battesimo, fosse tornato alle pratiche pagane, anche se lo avesse fatto sotto la minaccia della persecuzione.
Tuttavia non sembra sia questo il problema che ha di mira la nostra Lettera, problema ancora non presente quando essa fu scritta. Ma è lo stesso testo che potrebbe suggerirci la soluzione. Giovanni ci ha già detto che c’è una condizione che genera morte: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14). Quindi il peccato che conduce alla morte è il non amare i fratelli, come fanno i secessionisti, che, separandosi dalla comunità, si sono separati dallo spazio dove regna la luce e la vita. E costoro non bisogna neanche riceverli in casa e salutarli (cfr. 2Gv 10), cioè appartengono ad un mondo diverso, separato, con cui non c’è relazione vitale, dunque non passa il flusso di amore e vita che è la preghiera. D’altro canto neanche Gesù, stando a Gv 17,9, ha pregato per il mondo che si era chiuso al suo amore ed al dono della sua vita; i secessionisti, allontanandosi dalla retta fede e dalla comunione di vita ed amore con chi custodisce “ciò che era fin dal principio”, sono tornati ad essere “mondo”, che “giace sotto il potere del maligno” (1Gv 5,19) che è omicida, poiché fa perdere la vita divina a coloro che si lasciano sedurre da lui. E la sua seduzione porta all’idolatria, cioè a perdere il contatto con il Dio vivente a favore di ciò che è opera umana e perciò non può salvare. La lettera infatti si chiude con il secco ammonimento: “Figlioli, state in guardia dagli idoli!” (1Gv 5,21).

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1) “Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti”. Quali caratteristiche specifiche dona l’amore di Dio all’amore per i fratelli?

2) “Tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua ed il sangue”. Riflettere su cosa si possa intendere con questi termini: la vita di Gesù testimoniata da ciò che era dal principio, la Trinità, i sacramenti dell’iniziazione… chiedendosi come questa testimonianza diventa ora, viva, nell’esperienza dei credenti.

3) Alla luce del messaggio della Lettera, da quali idoli bisogna guardarsi?

Don Marco Renda

1 Ho scritto volutamente la parola “spirito” con la “s” minuscola, perché scrivere Spirito con la maiuscola, come la maggior parte delle traduzioni, orienta il lettore a comprenderlo come riferito alla persona dello Spirito Santo, ma su questo non tutti i commentatori concordano. È da ricordare che i codici greci non presentano la differenza di minuscole e maiuscole, quindi, stando al solo testo materiale, non si può dedurre come l’Autore volesse fosse inteso.